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PICA Giuseppe

09 settembre 1813 - 31 dicembre 1887 Nominato il 06 novembre 1873 per la categoria 03 - I deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio provenienza Abruzzo

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Marco Tabarrini, Vicepresidente

Signori senatori, nell'intervallo dalle ultime adunanze del Senato dobbiamo deplorare la perdita di tre senatori: Antonio Ranieri, Giuseppe Pica e Francesco Carrara, dei quali leggerò brevi commemorazioni.
L'ultimo giorno dell'anno testé compiuto era pur l'ultimo della preziosa esistenza del senatore Giuseppe Pica.
Nato egli in Aquila nel 1813, e dedicatosi allo studio della giurisprudenza, cominciò giovanissimo ad esercitare l'avvocatura presso la Corte d'appello di quella città.
D'ingegno svegliato ed animato da sentimenti patriottici, destò ben presto i sospetti della polizia borbonica, che in occasione dei fatti di Rimini lo sostenne in carcere durante otto mesi.
Pubblicata la Costituzione nel 1848, il Pica prese molta parte alle vicende politiche che ne seguirono, e fu eletto per due volte, in aprile e in giugno di quell'anno, a deputato del Parlamento napoletano. Avvenuta la reazione del 1849, egli fu sottoposto a processo e condannato dalla Corte speciale di Napoli a 26 anni di ferri, condanna che espiò nei bagni penali di Procida, Montesarchio e Montefusco, con Carlo Poerio ed altri illustri compagni di sventura, e che terminò coll'esilio.
Ritornato in patria dopo gli avvenimenti del 1860, ebbe importanti e delicati incarichi durante la luogotenenza di Governo in Napoli. Fu poscia eletto deputato della nativa sua città di Aquila nella VIII legislatura, nella quale egli propose coraggiosamente la legge per la repressione del brigantaggio, la quale, fieramente contrastata, fu difesa da lui colla profonda convinzione di portare rimedio efficace alla piaga del malandrinaggio, che allora affliggeva alcune provincie del Mezzogiorno.
Dal novembre del 1873 appartenne a questo alto consesso, e vi portò sempre operoso ed attivo contributo in lavori attinenti a materie amministrative e legali, nelle quali aveva particolare competenza.
Il Pica apparteneva a quella schiera, che va spegnendosi, di generosi e prodighi di ogni maniera di sacrifizio per la redenzione della patria, e che lascerà nella storia una traccia luminosa e feconda di nobilissimi esempi.
Onore alla sua memoria!
AURITI. Domando la parola.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il senatore Auriti.
AURITI. Parecchie eminenti qualità facevano veneranda la figura del rimpianto nostro collega Giuseppe Pica.
Dottrina solida con rara modestia e semplicità di modi, fortezza eroica con bontà squisita d'animo, carattere nobile che in tutta la vita in tutti gli atti fu sempre rivolto ad alti ideali.
Fu patriotta invitto, fervido ed equanime nel tempo stesso, quale Non civium ardor prava jubentium,/ Non vultus instantis tyranni/ Mente quatit solida.
Fu avvocato dotto, integerrimo, disinteressato: secondo l'antica definizione, vir probus dicendi peritus.
Come patriotta, subì persecuzioni, carcere, bando dalla città nativa fin dalla prima gioventù; e più tardi, in pena della parte notevole che aveva avuta nelle vicende del 1848, scontò quel decennio di galera che ebbe comune con Poerio, Settembrini, Spaventa, martirio dei più illustri napoletani che valse ai Borboni l'esecrazione del mondo civile.
Avete, o signori, già udito che deputato nella VIII legislatura non ebbe timore d'affrontare l'impopolarità, legando il suo nome a una legge che parve disumana, e non era che un complesso di guarentigie di giustizia, determinando le pene, imponendo le forme di regolari giudizi all'uso, ex lege,della forza in quello stadio di guerra sanguinosa, terribile per la distruzione del brigantaggio.
Come avvocato, bastava udirlo una volta per definirne il carattere.
Non mai un assunto sofìstico, non mai argomentazioni artificiose; era un'esposizione piana, precisa; i precetti anche i più astrusi di diritto venivano illustrati dal buon senso e posti d'accordo coll'equità con una parola facile, sobria, stringente, non di rado elegante.
Qual egli fosse, il Senato non ha potuto conoscerlo che in parte, poiché l'acquistò ad età tarda, logoro, più che dagli anni, dalle patite sofferenze.
E fu un grido di dolore quello che proruppe dal suo petto nella solenne discussione che si fece in Senato sulla pena di morte, quando egli disse che tutte le pene sono irrevocabili, non la sola dell'estremo supplizio; imperocché i dieci anni da lui sofferti nei bagni coi ferri ai piedi, chi li ha riscattati? Cessarono i patimenti pel futuro, ma fu cancellato il passato? Chi cancellò i solchi lasciati nello spirito e nel corpo, il lutto domestico, lo sperpero dei beni?
Ma confortati, o magnanimo, non è cancellata nemmeno la gloria che sopravvive nella memoria di quei nobili patimenti! Gli italiani li ricorderanno sempre alle nuove generazioni proponendo come esempio ai giovani più generosi questa santificazione della vita per la virtù dei sacrifizi in pro della patria (Benissimo, bene). [...]
PIERANTONI. Domando la parola.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.
PIERANTONI. Onorevoli colleghi! L'elogiò degli uomini sommi spetta a coloro che grandi cose fecero per la patria. Quindi io non ho nessun titolo per portare la parola in lode di uomini che uscirono da questa vita terrena circondati dall'ossequio e dal rispetto, non solo della nazione, ma dei popoli civili.
Tuttavia, se è vero che ciascuno ha una patria locale, dentro la grande patria, e che qui suonano sempre caldi e vivi i sentimenti di gratitudine, e di riconoscenza, permettete a me di dire, per la carità del loco natio a nome della regione abruzzese, a nome della gioventù meridionale e della bella regione dei monti apuani, alla quale mi uniscono grate memorie di gioventù, una parola per Giuseppe Pica, Antonio Ranieri e Francesco Carrara.
Giuseppe Pica appartenne a quella generazione di forti abruzzesi, che sfidò l'ira del Borbone e che ci educò al magnanimo sentimento che tatto si doveva alla patria schiava, nulla all'egoismo dell'individuo.
All'esempio del suo martirio noi ci educammo a pensare che l'antico Regno dei Normanni e degli Svevi, aduggiato dalla triste signoria borbonica, si doveva risolvere nella grande forma dell'unità italiana.
Giuseppe Pica, rientrato nella vita libera, diventato cittadino italiano, non ambì uffici, visse della sua professione, e nel fôro lascia due grandi tradizioni: la brevità e la precisione del pensiero, carattere dei giureconsulti romani; l'onestà, che dev'essere precipuo patrimonio del magistero della difesa.
Io l'ebbi sempre benevolo amico, e ricordo che, pochi giorni or sono, parlando delle ingiuste attribuzioni che spesso la politica dà alle opere degli uomini, ricordava che egli non aveva il merito di essere stato l'autore di quella legge, che comunemente si chiama legge Pica. Era dovere imperioso difendere la patria dalle sedizioni e dai brigantaggio. Tutte le storie insegnano all'uomo la virtù della salute della patria; ma Giuseppe Pica nulla ebbe di originale ed individuale in quell'opera collettiva del Parlamento italiano, fece soltanto il suo dovere emendando ed abbreviando il disegno di legge. [...]
BERTOLÈ VIALE, ministro della guerra. Domando la parola.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.
BERTOLÈ VIALE, ministro della guerra. Ogni mia parola sarebbe superflua, dopo le nobili ed elevate commemorazioni fatte dal Presidente del Senato e dagli onorevoli colleghi che mi precedettero, sulla perdita degli illustri senatori di cui oggi rimpiangiamo la morte.
Il Governo si associa di cuore al dolore del Senato, deplorando la perdita dei senatri Pica, Ranieri e Carrara, illustri per patriottismo e per scienza, ed il cui nome rimarrà imperituro negli annali della storia patria.

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 20 gennaio 1888.