senato.it | archivio storico

PIACENTINI Giuseppe

24 giugno 1803 - 23 giugno 1877 Nominato il 01 dicembre 1870 per la categoria 20 - Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria provenienza Lazio

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Sebastiano Tecchio, Presidente

Signori senatori! Giuseppe Piacentini, nato in Santo Polo di Sabina il 23 giugno 1803, sin da fanciullo si sentì preso d'amore agli studi classici, de' quali per avventura avea letto il famoso panegirico della Orazione Pro Archia.
Nella Università Romana, tra gli studenti dell'uno e dell'altro Diritto, fu il più assiduo e il più acuto. Aveva appena vent'anni, che meritò la laurea ad honorem.
Nell'esercizio dell'avvocatura salì rapidamente ad alta voce di dottrina, di accortezza, d'integrità. Non sappiamo che, a' suoi tempi, alcun altro né meglio né al pari di lui si cattivasse la stima privata e la pubblica. I più insigni patrizî, i pecuniosi più rinomati, non che di Roma, di tutto lo Stato Romano, si commettevano alla fede, al valore del Piacentini. Nè, de' clienti egli appariva soltanto il curiale. Era da senno la guida loro, e il conforto; a moltissimi, l'intimo amico. Pareva in lui rivissuto taluno dei giureconsulti della vecchia Roma, de' quali Orazio, nella Epistola ad Augusto, lamentava che si perdesse, o si mutasse lo stampo (1).
Noto è che eziandio le Case regnanti, nei negozi di grave momento, al Piacentini ricorrevano per consiglio; talché si possa affermare che la più parte delle dinastie dell'Europa sono entrate nel novero de' suoi clienti.
Niuno crederebbe che le cure e le fatiche, da lui sostenute nella luce di tanta e si solenne fiducia, non gli abbiano fruttato emolumenti larghissimi. Niuno crederebbe che nel volgere degli anni non traricchisse [sic], come non pochi dei forensi erano usati di fare in questa e in altre delle città capitali.
Ma non fungeva il patrocinio per istudio di crescere la discreta fortuna redata [sic] dai genitori: si recava ad onore di prestar l'opera, piuttostoché per la speranza di non lievi guadagni, pel desiderio di promuovere via via e guarentire i trionfi della giustizia, nella quale consiste il maggior debito dei Governi, il maggior bene dei popoli. Onde non solo non chiese, ma (comeché non di rado gliene venissero offerti) rifiutò premi e compensi che la sua modestia giudicava eccessivi. Narrano specialmente che, avendo egli propugnato con sommo zelo e bravura i diritti patrimoniali di certa Casa regale, gli si voleva largire un valsente sì generoso da poter bastare a crearne la comodità, l'agiatezza di una buona famiglia: narrano ch'egli, arretrandosi, abbia dichiarato ricisamente che non potrebbe accettare la magna oblazione senza sentirsene umiliato. Insomma, di questo avvocato fu amplissimo il merito, clamorosa la fama; né tuttavia il patrimonio gli diventò dovizioso.
Quando Pio IX ha posto innanzi la Consulta di Stato, il Piacentini sedette tra i consultori. Nel tempo dello Statuto, gli elettori lo vollero al Consiglio de' deputati.
Dopo l'esodo di Pio per Gaeta, e intanto che Roma reggevasi a popolo, armi straniere la libertà romana guerreggiarono, spensero: e sull'istante, pel Manifesto gaetino, il Governo cadde in mano a tre cardinali, cui posero il nomignolo di Triumviri Rossi.Piacque a costoro di mandar esuli dallo Stato i più notabili de' patrioti; a segno che Napoleone, in una sua lettera e Edgardo Ney, sdegnosamente li querelò ch'e' voleano fondare il ritorno del Papa sulle proscrizioni e la tirannia.
Il Piacentini non fu de' proscritti: o che ciò gli avvenisse per intercessione di qualche Legato estero; o che ai Triumviri non sia bastato l'animo d'infierire contro l'avvocato eminente, e a tutti gli onesti carissimo. Nondimeno quella polizia gli mise a' panni i più scaltri degli Arghi suoi, sì che avessero a spiarne le parole, gli atti, i sospiri.
Arrivate, dopo tante aspettazioni e tanti dolori, le felicità del '60; e già cominciando l'Italia a rannodare le sparse membra, il conte di Cavour, che non disconobbe la necessità di un nuovo Codice civile degno della nazione, convocava in Torino i più chiari legisti delle provincie libere: manifestava spacciatamente la idea che una radunanza, una congrega, avvegnaché di uomini competentissimi, non sarebbe acconcia a comporre il Codice nel breve periodo che occorreva di prefinire: soggiungeva, parergli spediente di interporre alla bella prima il senno e l'alacrità di un giureconsulto indubitatamente sopra ogni altro autorevole, e a lui solo commettere la formazione di tutto uno schema: conchiudeva col proporre al grand'uopo il Piacentini di Roma, ch'era in grido di versatissimo, oltreché nei Digesti e nel Codice di Giustiniano, nella filosofia del diritto, e nella legislazione comparata dei varî Stati europei.
Assentirono con suffragi unanimi i convocati.
Fu spedita segretamente, ma subito, al Piacentini la notizia, e la preghiera di assumere il compito nobilissimo. Contuttociò ei non tenne l'invito. Tenerissimo della sua Roma, avventì [sic] che, s'ei muovesse una volta verso Torino, i pontificî gli vieterebbero di più raccostarsi alle falde dei sette colli: pronosticò che il Re leale, levate le tende dalla Dora e dal Po, s'insedierebbe sulle sponde del Tevere: diede fede che, avveratasi codesta trasmigrazione, ben volentieri ci porrebbe a servigio del Regio Governo ogni suo ingegno ed ogni pensiero.
Il fausto pronostico non doveva fallire. Meglio tardi che mai, nel 20 settembre del 1870 la bandiera dell'italica redenzione meravigliò le genti, innalzata sul Campidoglio.
Accorso qua il generale Lamarmora, luogotenente del Re, il Piacentini prese a reggere (ufficio a quei giorni ponderosissimo) il Dicastero di grazia e giustizia per la città e la provincia romana. Era vecchio: e tuttavia, quasi come ringiovanisse sotto la soma delle nuove fatiche, ai tanti bisogni di quel periodo di transizione provvide, saviamente, rapidamente; di ciò sopra ogni cosa sollecito, che le sue provvisioni rispondessero, in quanto fosse fattibile, al sommo intento della unizzazione di Roma cogli ordini legislativi e giudiziali delle altre parti del Regno.
Il plebiscito suggellò il voto di cinque secoli.
Si indicevano le elezioni generali politiche. Il Comizio di Poggio Mirteto fu lieto e superbo di affidare al Piacentini il mandato di rappresentante della nazione nel parlamento. Ma immantinente quel principe dei giuristi, per decreto reale del 1° dicembre 1870, fu scritto nel Libro dei senatori; e nella tornata del 18 aprile del '71 ci diede saggio della singolare sua avvedutezza.
Fra poco, lo côlse una paralisi progressiva: l'ha sofferta per oltre in quinquennio; e la sera del 23 giugno di quest'anno spirò, nell'ora appunto che compiva il settantesimoquarto dell'età sua.

(1) Hor. lib. II, Epist. 1, v. 103

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 17 dicembre 1877.