PANIZZI Antonio
16 settembre 1797 - 08 aprile 1879 Nominato il 12 marzo 1868 per la categoria 20 - Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria provenienza Emilia-RomagnaCommemorazione
Atti Parlamentari - Commemorazione
Sebastiano Tecchio, Presidente
Antonio Panizzi nacque in Brescello il 14 settembre 1797.
Ha corso le scuole delle lettere e della filosofia in Reggio d'Emilia; gli studi giuridici in Parma; ed ottenne la laurea dottorale nel 1818.
Erano i tempi che, sfasciatosi il grande Impero, la reazione signoreggiava nella più gran parte d'Europa, e spezialmente ne' vari Stati d'Italia. Cospiravano intanto, avverso i despoti, le sette de' patrioti; principale, e più numerosa fra tutte, la carboneria. Appunto coi carbonari s'indettava il Panizzi; e tanto più accesamente, quanto più erano biechi e tirannici i portamenti del duca di Modena e Reggio, Francesco d'Este. Ma, tra poco, e' s'addiede che alla polizia del duca erano stati rapportati i suoi voti e i suoi disegni; onde, a schermirsi da un processo di crimenlese, se n'è fuggito oltre Po, e per vie lunghe e tortuose si condusse a Lugano. Non fu senza pericoli il transito. Poco mancò che un commissario malefamoso, il Tecini, nol menasse prigione. Gli valse a difesa il passaporto che avea con seco. Nondimeno i fedeli del commissario lo spogliarono di danari, di carte, di tutto il suo.
Da Lugano s'è tramutato a Ginevra: da Ginevra in Ispagna: poi in Inghilterra, dove poté starsi sicuro dalle domande di estradizione, dianzi spiccate per conto del Duca, e dall'Imperatore austriaco, e dal Governo di Francia.
Frattanto il Tribunale straordinario, posto in Rubiera pei giudizi di Stato, con sentenza del 6 ottobre 1823, pronunciava, in contumacia del Panizzi, la condanna di lui alla pena capitale e alla confisca de' beni. La sentenza fu confermata dal Duca, e il contumace strozzato in effigie.
Nello stesso 1823 il Panizzi mandava po' torchi di Madrid un suo libro, con questo titolo: Dei processi e delle sentenze contro gli imputati di lesa maestà e di aderenza alle sette proscritte negli Stati di Modena. Con esso libro, narrate le condizioni del Ducato al tempo del primo Regno d'Italia, divulgò le cattivezze del regolo modenese, le tapinità dei suoi ordinamenti politici, e i soprusi di quel suo Tribunale novissimo. Levarono molto rumore le dette rivelazioni, e la esortazione fatidica che le suggellava: "Oh! se l'Italia (così il Panizzi) alzasse il neghittoso capo.. Ma lo alzerà; ché di tanto ne assicurano l'universale amore di patria e il generoso ardore per la indipendenza, frutto dei lumi e dei progressi dello incivilimento. Stiano sicuri gl'italiani: la loro liberazione non può esser dubbia, checché si faccia per costringerli a retrocedere verso il servaggio".
A Londra conobbe due altri de' nostri esuli, i fratelli Ugoni, e (mercé loro) il Foscolo, e lo scrittore delle vite di Lorenzo de' Medici, e di Leone X; dico il Roscoe di Liverpool, mecenate liberalissimo degli artisti e dei letterati.
Tornato agli studi, dettò il Saggio della poesia cavalleresca d'Italia, che nel 1830 Guglielmo Pikering ha posto come proemio alla sua splendidissima edizione dell'Orlando innamorato,del Bojardo, e dell'Orlando furioso,dell'Ariosto. A quella edizione crescono pregio le biografie de' nostri romanzieri antichi, tessute dal Panizzi e le sue note intorno alle tradizioni del popolo. Il Saggio, le biografie, le note, furono dai dotti altamente ammirate, e vuoi per la soda critica, sempre ricca di fatti e confronti felicemente trovati, e per la vasta erudizione, e per la serenità e la solidità de' giudici.
Non è ignoto che, nel secolo XV, Francesco il Bello, cognominato il Cieco di Ferrara, avea recitato nella Corte del marchese Gonzaga di Mantova un poema romanzesco, il Mandriano; e non è ignoto che Lodovico Ariosto a quel poema avea posto attenzione, e saputo farne suo pro. Pare tuttavia che gli ultimi secoli niente più si curassero del mandriano, o niente ne ricordassero. Antonio Panizzi, sottilmente inteso a cercare le origini delle leggende e della epopea cavalleresca, fu il primo a disascondere i canti del Cieco di Ferrara, e a metterne in luce il valore artistico.
Similmente ei si fece a scrutare le radici e le ragioni della Teseide, del Morgante maggiore, dell'Amadigi, del Ricciardetto; e recò in mezzo acutissimi avvisi sopra il genio e gli andari de' loro autori»; ma non senza avvertire che la fiaccola, onde bisognava che venissero illuminati gli studi dei semi e dei germi e della fantasia popolare, si dovea rintracciarla nella Scienza nuova del Vico.
Codesti ed altri scritti gli valsero le lodi e il favore di uomini illustri e potenti; specie, di Lord Brougham, che nel 1828 lo ha chiamato alla Cattedra di letteratura italiana nella nuova Università di Londra. Tre anni appresso, il 27 aprile 1831, fu nominato adiutore nella celebre Biblioteca del Museo Britannico. L'Arcivescovo di Cantorbery, cui spettava di ratificare la nomina così si espresse: "Molti direttori di quell'istituto (il Museo Britannico) opinavano che la assunzione del Panizzi doveva essere utilissima. Facendo conto delle doti di questo gentiluomo, della sua maestria nelle diverse lingue, del suo ingegno e della sua dottrina, mi stimai in debito di aderire al desiderio di quegli egregi".
Sei anni dopo, il 15 luglio 1837, prese nella biblioteca il posto, già tenuto dal reverendo Baker, di conservatore delle opere a stampa. Aveva per competitore a quell'ufficio il signor Clary, da persona autorevolissima raccomandato. E come si seppe il trionfo del profugo italiano, s'è suscitata una tempesta di collere e di dispetti. Biasimavano ad alte voci, e appellavano scandalosa la elezione di un forestiere. Direbbesi che i letterati di Londra arieggiassero quei primi Romani, notati da Cicerone, che Peregrino facevano sinonimo di nemico. (1).
Ei reputò necessario di mutar Sale ai libri stampati; e con alacrità portentosa adoperò al suo disegno. Il trasporto de' libri da una ad altra sala; il cambiamento de' segnacoli sul dorso de' volumi; la riforma che ne dee conseguire dei diversi cataloghi; queste son brighe e faccende che ai volgari appariscono leggieri e dappoco, ma veramente richieggono intelletto ed occhio attentissimo; conciossiaché una inavvertenza, uno svagamento, anche menomo, possano indurre confusioni e disordini, incompatibili cogli intenti della biblioteca, e col degno servizio dei tanti che a lei ricorrono.
L'arcivescovo di Londra, annunciatagli la novità che nella biblioteca imprendevasi, apertamente avea detto che il Panizzi correva dietro a un sogno, a una fola, e gli tornerebbe al tutto impossibile di giungere a riva.
Ma fatto è che il lavoro fu condotto a compimento con tal magistero che mai non accadde uno svario, né mai surse un lamento. E in quel mentre medesimo il Panizzi diede ordine e regola a una intera biblioteca, pur allora donata al Museo. E (che è più singolare), nemmeno ai giorni che più ferveva l'opera innovatrice, non fu mestieri che punto si interlasciassero le solite letture pubbliche.
Pigliato animo da un esito così pieno e così clamoroso, domandò ed ottenne dal Parlamento, in sussidio alla biblioteca, l'annuale assegno di dieci mila lire di sterlini: protestò davanti ai Direttori del Museo contro gli acquisti che, si faceano, dei Libri editi in Inghilterra: malgrado la opposizione di tutti gli editori, richiamò in osservanza l'antica legge, di già caduta in disuso, che obbligava i tipografi del Regno Unito a consegnare immediate al Museo uno esemplare d'ogni libro che uscisse in istampa. E poiché il numero delle opere venia fuor misura crescendo, ideò, prescrisse, e via via mise in atto (sconfinata fatica) il nuovo Catalogo generale di tutt'essa la Biblioteca.
In questo mezzo, la livida invidia non fu tarda a latrare.
Tutti i concetti del Panizzi e le provisioni sono state bersaglio a diffidenze, a rimbrotti, ad accuse. Diceano che codesto straniero avea scompigliato ogni cosa; che avea sprecati i danari del Museo, e i sussidi del Tesoro; che la Biblioteca, bella un tempo e perfetta, ei l'aveva co' suoi rigiri conversa nel caos.
Il Governo della Regina non se ne stette indifferente o sbadato. L'Inghilterra è il paese delle inchieste: forse noi ne vorremmo seguire le traccie, ma molti temono che qui non si abbia il coraggio di smagliare i viluppi e di romper gli intoppi, che spesso fermano lo scandaglio. Onore al Panizzi che mosse e iterò senza posa le istanze sue perché la inchiesta venisse decretata alla libera. Ciò fu nel 1850. Data a tutti licenza di proporre incolpazioni e richiami: amplissimo il contraddittorio: dodici inchiedenti, spettabilissimi: ben diciotto giorni di discussione: fondato a gravi e inespugnabili ragioni il giudizio.
In somma la inchiesta, non che sgombrare ogni cabala e ogni ombra, è diventata, rispetto al Panizzi, il più stupendo de' panegirici.
Basti che il direttore del Museo, il dottissimo Hamilton, rispondendo alle censure, e ributtandole ad una ad una, asseverava: ..Grande fortuna è per noi l'aver a Capo della Biblioteca un uomo, di cui certamente in Inghilterra non è l'eguale.
Arroge, che due bibliografi americani, il signor Giorgio Summer e lo Stevens, punti dal desiderio di rendere omaggio al vero, vollero aggiungere ai resultamenti della inchiesta il suffragio della loro testimonianza. Udite il Summer: Né miei studi mi son valuto della Biblioteca del Museo Britannico, della Biblioteca Reale di Parigi, di quelle di Monaco in Baviera, di Vienna, di Copenaghen, di Roma, di Napoli, di Madrid: e senza esitanza dichiaro che niuna grande Biblioteca d'Europa fornisce le agevolezze e gli aiuti che nel Museo Britannico si rinvengono". E lo Stevens, direttore dell'Istituto Smithsoniano: Dopo aver fatto molti anni il Bibliotecario, e impratichitomi del mestiere, ho speso un altro biennio sul continente d'Europa, per esaminare le principali Biblioteche e cavarne i lumi che meglio giovassero a guidarmi nello assettamento di somiglianti istituti in America. Or ecco il giudizio che no ho formato: Chiunque voglia imparare profondamente la Scienza delle Bibliotechenon occorre che vada più in là del Museo Britanico".
Nel 1856 sir Enrico Ellis ebbe a smettere, per gravezza di età, la carica di Capo bibliotecario. La elezione del successore, giusto una antica deliberazione del Parlamento, doveasi fare tra' due, all'uopo designati dall'arcivescovo di Cantorbery, dal lord cancelliere, e dal Presidente della Camera dei Comuni. Fu scelto il Panizzi: e il festeggiarono con vivi applausi i savi estimatori degli uomini e degli offici. Senonché il signor Milnes (ora lord Hougton) nella Camera dei Comuni surse a parlare in questo tenore: Amo anch'io che i fuorusciti s'abbiano appo noi ricovero e protezione; ma non per ciò saprei comportare che a un fuoruscito si conferisca il posto di direttore della massima Biblioteca". Inutile querimonia: la quale, alla fine, ha provocato nuovi e più sfoggiati encomi al Panizzi e da parte del Presidente della Camera, e di lord Russel, e del signor d'Israeli, e d'altri de' cosifatti.
Insediato nel grado di Capo bibliotecario, il Panizzi seppe schiudere alla sua inesauribile attività un campo franco, non ancora escogitato da chicchessia. Nel centro dell'edificio del Museo era il cortile, o giardino, vastissimo. Quell'area intiera ei coperse con bella e robusta tettoia di ferro e cristallo, e vi ha costituito all'intorno i bene acconci scaffali pei Lessici o dizionari di ogni arte, di ogni scienza, di ogni età, di ogni lingua, e indici e repertori, ed altri libri, i più soliti a dover essere consultati. Or di quanta comodità e utilità la Rotonda sia tornata a tutte le classi dei colti uomini e degli studiosi, è piuttosto facil cosa d'immaginare che di minutamente descrivere.
Signori, per consenso universale, la Biblioteca del Museo Britannico ha i caratteri e gode il nome di "Prima biblioteca del mondo". Ci sia lecito di riflettere, non senza orgoglio, che il maggiore de' meriti del glorioso successo appartiene a un figliuolo d'Italia!
Alle sue cure fu assiduo il Panizzi sino al 1865. Toccati gli anni settantotto, e prossimo a perdere il senso visivo, ha chiesto il riposo.
Lo pregarono che continuasse ancora nell'ufficio almeno per qualche tratto. ma nel 1866 la sua domanda non poté essere più oltre soprattenuta; e, a significazione della pubblica riconoscenza, la sua pensione di riposo fu ragguagliata alla somma dell'intiero stipendio; millequattrocento lire di sterlini ad ogni anno.
In quella stessa occasione ebbe le insegne di commendatore dell'Ordine del bagno; onde il titolo di "Sir". La Francia lo fece commendatore della Legione d'onore. E Re Vittorio Emanuele, che già lo avea noverato tra i Commendatori della Corona d'Italia, nel 12 marzo del 68 lo nominò senatore del Regno, inscrivendolo tra "coloro che con servigi o meriti eminenti hanno illustrato la patria". (2).
Benché lontano dalla terra natale, non l'avea in tempo alcuno dimenticata: ché anzi, tenendola in cima de' suoi pensieri, s'era industriato quanto per lui si poteva a giovarle.
Scaduti erano (a che varrebbe tacerlo?) nella prima metà del secolo scaduti erano gli italiani dalla stima delle grandi nazioni. Degeneri lo diceano dagli avi: alle maschie virtù della mente e del braccio sottentrato (dicevano) le abbiette voglie dell'ozio, delle smancerie, dei bagordi: né finivano di chiamarli acconci e proni al governo dei principi assoluti, incapaci a spoltrirsi da sé, immeritevoli de' soccorsi d'altrui. E intanto, schiava essendo tra noi la parola, e peggio la stampa, le Polizie non davano il passo tranneché alle notizie e ai giudizi che talentavano ai lor padroni. Duole a ricordare che delle nostre condizioni politiche pago e soddisfatto apparisse tra gli altri il Gabinetto di San Giacomo; e probabilmente, perché erano quali voleale la vecchia alleata, la Corona di Vienna. Bisognava dunque che qualche animo degno prendesse a sbugiardare i nostri nemici, e persuadesse gli Statisti inglesi che ceppi e bavaglie non basterebbero mai a spegnere o infievolire la coscienza de' nostri diritti, e il proposito di farli valere; che, messi sotto alla servitù, irrequieti sempre saremmo, e sempre ansiosi di metterci allo sbaraglio, e infesti all'Imperio e ai satelliti suoi, e alla pace generale importuni; che in breve, non a noi soli, ma a quante sono in Europa le genti civili, e massime a quelle che sentono il pregio e il profitto degli ordini liberi, sommamente importava la italica redenzione. Il Panizzi, circondato com'era dalla fiducia e dall'amicizia de' più alti e più autorevoli personaggi (tra i quali il Russell, il Palmerston, il Gladstone), la nostra causa poteva, per avventura meglio che ogni altro, utilmente patrocinare: e in effetto, d'amore e d'accordo col conte di Cavour, pigliò di gran cuore e con pietà di figlio il nobile assunto; e a poco a poco guadagnò al programma italiano le simpatie del Governo della Regina. Se ciò dovesse riuscire, e sia riuscito all'utile nostro, niuno è che non sappia. (3) Più che tutti lo seppe il conte di Cavour, e in appresso il barone Ricasoli.
Né in quelle sue interposizioni il Panizzi limitavasi a tener conto de' soli commerci amichevoli che seco aveano i ministri del Re; ma faceva ragione di ogni caso e di ogni incidente di qualche rilievo, che gli venisse a notizia per altra via. Onde a lui, nelle cose politiche, i principali della penisola fidatamente si commettevano; come, per esempio, Antonio Scialoja, che col mezzo di lui fece porre innanzi al Governo della Regina il gravissimo memorandum 21 maggio 59 dei liberali napolitani.
Del resto: i profughi italiani, sol che fossero costumati e dabbene, aveano da lui e consigli, e indirizzi, e ogni maniera di conforti; né di rado accadeva che gli indigenti e' sovvenisse eziandio di pecunia. Testimonio, tra i molti, l'ottimo Settembrini.
Già fin da quando Luigi Settembrini pagava coll'ergastolo di santo Stefano la pena della sua fede di patriota, alle necessità della moglie sua e del figliuolo aveva sopperito largamente il Panizzi; e altresì dal Panizzi il galeotto, tostoché uscì di prigione e approdò all'ospitale Inghilterra, ricevette i più preziosi aiuti che mai potesse desiderare. Di che, terminato il suo nobilissimo volgarizzamento di Luciano, scriveva appunto del Panizzi: "Qualunque sia questa mia fatica, per suo benefizio io potei farla; e però a lui è dovuta, ed a lui l'offero e la consacro..Sarò contento s'ei crederà che anche nell'ergastolo ho cercato di fare quel poco di bene che potevo alla patria comune". (4).
Saputo che il suo nome splendeva nell'albo dei senatori stanziati allora a Firenze, si affrettò (poco calendogli della quasi spenta virtù visiva, e della via lunga dal Tamigi all'Arno) si affrettò a prestar giuramento, ed assidersi nell'Assemblea, addì 3 marzo del 1869.
In quel tempo prese parte ad una Commissione che, parimenti a Firenze, era intesa a disporre il riordinamento delle nostre Biblioteche. Ma la spossata salute mal sofferiva il divario tra il clima fiorentino e quello a cui da poco meno che cinquant'anni s'era assuefatto. Onde dovette tornarsene a Londra.
L'ultimo periodo della sua vita fu consolato dal pensiero che l'Italia ha oramai nome e seggio tra le grandi nazioni. Né gli è venuta meno la cara consuetudine degli amici; specie, di Guglielmo Gladstone, che il volle baciare in fronte sino ai giorni supremi.
Negli otto d'aprile il Panizzi, che aveva sì altamente amato e sì altamente giovato la patria e la scienza, rendette la grande anima al suo fattore.
(1) "Apud majores nostrum hosties is dicebatur quem nunc peregrinus dicimus. Cic., 1, Off".
(2) Statuto art 33, n. 21.
(3) Nel 1859 fu chiamato alla direzione della Morning Post il signore Gaetano Stuart perché perorasse la causa della libertà italiana. Anche di questa chiamata dobbiamo il merito al nostro Panizzi.
(4) Più tardi il Settembrini ha parimente dedicato al Panizzi un altro suo lavoro:" Tasso, dipinto di Bernardo Celentano.
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 29 luglio 1879.