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PALLAVICINO TRIVULZIO Giorgio

29 aprile 1796 - 04 agosto 1878 Nominato il 29 febbraio 1860 per la categoria 03 - I deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio provenienza Lombardia

Commemorazione

 

Sebastiano Tecchio, Presidente
Signori Senatori.
Devo richiamare alla vostra pietà i nomi di otto Colleghi che la morte ha da noi divisi nel tempo che vòlse dalle ferie estive e autunnali sino a questi ultimi dì. Essi furono, nell'ordine necrologico: [...] il marchese Giorgio Guido Pallavicino-Trivulzio [...] Tardi vengo a compiere il sacro debito; non perché io me ne stessi finora indolente; ma perché, specialmente per taluni de' primi defunti, tardi mi arrivarono certe notizie che avevo chieste e che faceva d'uopo aspettare. [...]
Il marchese Giorgio Guido Pallavicino Trivulzio, di antica stirpe e magnifica, nacque a Milano li 24 aprile 1796.
Finiva appena i sette anni quando morivagli il genitore.
Alla sua educazione si è consacrata la madre Anna Besozzi, donna di alti sensi, che di certo avea letto il libro del più sapiente dei Re, dove dice: «ammaestra il fanciullo, secondo la via che ha da tenere; egli non si partirà da essa, non pur quando sarà diventato vecchio» (1).
Costei proibiva ai domestici di dare al fanciullo il titolo di marchese; proibiva che lo aiutassero nelle ordinarie bisogne; lo assuefaceva a severa frugalità; non gli consentiva altre letture che di storici e di oratori de' bei tempi di Atene e di Roma.
Innamorato di que' tempi e di quelle gesta, amaramente sdegnavasi di vedere l'Italia divisa e serva; né sapeva darsi pace degli indugi e delle difficoltà a romperne le catene.
Visitò, giovanissimo, le principali contrade d'Europa. I viaggi non gli mutarono l'animo. Tornò a Milano più deliberato che mai a faticare per la redenzione della patria. Federico Confalonieri lo aggregava alla Società segreta dei Carbonari, la Federazione; fortemente intesa al fine giusto, pio, necessario, di preparare le menti e le armi alla cacciata dello straniero.
Intanto alla rivoluzione napolitana del 1820 erano succeduti i commovimenti piemontesi del ‘21. Il Confalonieri meditava invitare il Principe di Carignano, Carlo Alberto, ad entrare con buona mano di soldati nella Lombardia, e bandirvi la guerra all'Austria: di che, non permettendogli la mala salute di porgere l'invito personalmente, diede il mandato a Giorgio Pallavicino; il quale, si prese a compagno un altro de' federati, Gaetano Castillia. Amendue i messaggieri giunsero difilato alle tende de' dragoni insorti a Novara, e di là procedettero a Torino. Il Principe li accolse molto benignamente: ma non ascose che scarso era l'esercito; arduo il cimento; nessuna probabilità che le Alte Potenze lo fossero per tollerare. Conchiudeva: "speriamo nell'avvenire".
Reduce a Milano, e avvertito che la Potestà avea saputo della sua andata agli Stati del Re, il Pallavicino riparò nella Svizzera. Poco appresso, rimpatriò; o che a cotesto lo sospingesse l'amore della madre, o l'ansia di nuovamente accontarsi coi congiurati.
Sennonché, nel dicembre di quello stesso anno, una pattuglia di gente d'armi rifrustava la casa di Gaetano Castillia; e ghermitagli una carta, cui diede epiteto di «sospetta», immediatamente lo incarcerò. Onde il Pallavicino, avvisandosi (comeché erroneamente) che della peripezia dell'amico fosse cagione la gita con seco fatta a Novara e a Torino, di proprio moto comparve al cospetto della Polizia, così ricisamente affermando: «Io trascinava il Castillia in Piemonte: se quel viaggio è delitto, io solo sono il colpevole; io solo merito pena» (2).
L'atto magnanimo è miseramente riuscito al Processo di alto tradimento, e alla Sentenza della Commissione speciale di Milano, che inorridì tutti i cuori.
Invano le tenebre coversero i libri dell'immane Processo. Le tristizie dei giudici; le violenze, le torture patite dagli accusati; le trame ordite d'attorno a' testimoni; le confessioni poste in bocca agli inconsapevoli tutto è già manifesto; e nessuna diuturnità di tempo ne farà immemori gli Italiani.
La Sentenza, che uscì nel gennaio 1824, ha condannato il Confalonieri, il Pallavicino, e Gaetano Castillia (senza ch'io noveri gli altri) alla pena della morte, da doversi eseguire colla forca. L'Imperatore, confermata la Sentenza per via di Giustizia, commutò per via di Grazia la pena nel carcere duro, da espiarsi nella Fortezza dello Spielbergo, in quanto a Confalonieri per tutta la vita, in quanto a Pallavicino e Gaetano Castillia per anni venti.
A udire la lettura pubblica della Sentenza i condannati han dovuto, in catene, a testa nuda, salir la gogna, davanti al popolo abbrividito e sgomento. Ma in quell'ora fu scritto in cielo che nella regione Lombardo-Veneta il dominio straniero era impossibile.
Chi diede voce che sulle prime Giorgio Pallavicino, mal sapendo schermirsi dalle insidie degli inquisitori, si fosse macchiato di qualche rivelazione,fu sbugiardato dal più accorto notomista degli Atti, l'Imperatore: il quale a un maggiorente, che intercedeva per nome della madre di Giorgio, in questi termini resistette: «Mi duole di non poter concedere la Grazia ch'ella domanda: questa volta sono costretto a usar rigore. Ma Pallavicino è un eroe... Io chiamo eroismo il sacrificio: e il Pallavicino si è sacrificato per salvare i suoi compagni» (3).
Taccio le asperità, le sevizie dello Spielbergo. Niuno di noi non ha pianto sulle pagine di Silvio Pellico, di Pietro Maroncelli, e su quelle stesse del nostro Pallavicino. - Non a torto egli ha scritto, che «la Rocca Moràva era un sepolcro, - senza la pace de' morti».
Negli ultimi mesi del 1830 il Pallavicino infermò di nervi sì fieramente che parea quasi perduto di corpo o di spirito. Ne ha riferito a Vienna il protomedico della provincia, attestando la urgente necessità di mandare il malato a un clima men rigido. Il Rescritto si fece attendere per oltre un anno. Di poi capitò l'ordine del trasferimento all'ergastolo di Gradisca.
Non erano costà le distrette minori punto o diverse da quelle di prima. - Per soprassoma, al nuovo venuto assegnarono a camerata un vecchio villano della Carniola, di forme atletiche, di voglie ladre, sentenziato a perpetuo carcere come reo di molto rapine. - Sento in cuore il ribrezzo della lurida compagnia; né più mi reggo a contare i morsi della fame, onde è notorio che Giorgio a Gradisca fu per morire.
La miserrima prigionia non ebbe termine se non dopo un altro giudizio: il giudizio di Dio su Francesco d'Absburgo [sic].
Era stato poc'anzi il Pallavicino traportato [sic] a Lubiana. Di qua, toltigli i ferri, lo relegarono a Praga. Più tardi, fu restituito a Milano in figura di sorvegliato dalla Polizia.
Sul finire del ‘47, e all'entrare del ‘48, invitato a cospirare contro l'Austria, non volle; ma, fedele alla sua bandiera, rispose facessero capitale di lui e di ogni cosa sua nel giorno della battaglia; e intanto dispose di 50 mila lire per dar pane agli artisti e agli operai che non avessero lavoro. Venuto il momento della prova, combatté col popolo nelle cinque giornate. Durante il Governo Provvisorio, si studiò di giovare la patria con tutti i mezzi ch'erano in poter suo. Dopo il precipizio delle cose nostre, tornava con tanti altri in esilio; e dapprima fu in Francia, ove raccomandò invano l'Italia al generale Cavaignac...(4) .
Fermata poi sua dimora tra i liberi Subalpini, sedette alla Camera elettiva, nella 2a Legislatura pel 3o Collegio di Genova; nella 5a e nella 6a pel 2o Collegio di Torino.
Pigliò parte alla discussione di alquanti schemi di legge. Nel 1854, a quello delle modificazioni all'ordinamento della guardia nazionale; e all'altro delle modificazioni ed aggiunte al Codice penale: nel ‘55, a quello del prestito di 40 milioni; e a quello della soppressione delle Corporazioni religiose; e all'altro della Convenzione militare coll'Inghilterra e la Francia per la guerra di Crimea: nel giugno ‘57, a quelli della Leva, e delle modificazioni alla legge di reclutamento: e nel ‘58, a quello delle pene per la cospirazione contro i Sovrani esteri, e per l'apologia dell'assassinio politico.
Nel frattempo, il 15 gennaio 1855, si associava all'interpellanza di Angelo Brofferio, chiedente una politica di aperta rivoluzione.
Ma il suo vero campo non era alla Camera. Persuaso che nessuna parte d'Italia potrebbe reggersi in libertà se tutte non si stringessero in un solo fascio, in una sola famiglia; convinto che l'unità non fosse possibile di raggiungerla salvoché sotto lo scudo e la guida della dinastia di Savoia; pose opera, ingegno, ardore infinito, pose tutto sé stesso, a raccogliere i patrioti intorno a questo vessillo «Italia e Vittorio Emanuele». Disperava di vincere le riluttanze di Giuseppe Mazzini. Non disperò di trarre alla propria fede il Dittatore, che fu di Venezia, Daniele Manin, il quale aveva tanto séguito tra i repubblicani della Penisola, e, nel suo esilio a Parigi avea guadagnato alla nostra causa la simpatia di virtuosi cuori, di potenti intelletti.
Fu eccelso il disegno; lungo lo studio; il cammino pieno di triboli. Bisognava dar di frego a mille screzî, a mille gelosie; ammorzare molte ambizioni; colmare un subisso di diffidenze. Certo è che il Manin, allora solo si accostò a quel programma, quando Parigi e tutta Europa riseppero di che antico valore avea dato prove alla Cernaia il piccolo esercito dei Subalpini. Allora si avvide che ai regî del ‘48 e del ‘49 non avea fatto difetto se non la fortuna. Allora presagì che i soldati di Vittorio Emanuele erano degni di doventare i soldati d'Italia. E allora scrisse "Se l'Italia rigenerata debbe avere un Re, non debb'essere che un solo, e non può essere che il Re di Piemonte" (5).
Permettetemi, o Signori, di credere che, se non era la gran concordia inaugurata da Giorgio Pallavicino e secondata da Daniele Manin, il conte di Cavour non avrebbe condotto il Piemonte a quella sfida, per la quale il 1859 fu preludio ed auspicio della nostra epopea.
Nel detto anno ‘59 il Pallavicino, non che prodigare ogni fatta soccorsi, suggeriva audaci spedienti da crescere le schiere de' volontari. Benché non ascoltato, sempre perseverò nelle liberalità le più sollecite, le più fruttuose. - Né, l'anno appresso, furono punto da meno gli entusiasmi e gli aiuti di lui alla portentosa spedizione dei Mille.
Chiamato a Napoli dal Garibaldi, vi assunse l'ufficio di Prodittatore. Trovò divisi gli spiriti. Altri bolliva di voglie repubblicane: altri di regi amori. Altri portendeva la unità dell'intera nazione: altri il federalismo. E questi oravano per la proroga dei poteri del dittatore: e quelli per la convocazione di una Costituente: e molti per la immediata designazione di un Principe. E chi al Principe eletto avrebbe dato la Corona: e chi la sola Reggenza.
Era urgente pigliare un partito terminativo. A ciò la formula del plebiscito, indetto dal Prodittatore pel 21 ottobre: «Il popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti?»
La più meravigliosa maggioranza di voti, da un capo all'altro dell'ex-Reame, ha affermato la formula. Da quel dì si è potuto annunziare al mondo civile che «l'Italia è risorta».
Issofatto il conte di Cavour scriveva per telegramma al Pallavicino «L'Italia esulta per lo splendido risultato del plebiscito, che al suo senno, alla sua fermezza, e al suo patriottismo è in gran parte dovuto. Ella si è acquistato così nuovi e gloriosi titoli alla riconoscenza della nazione» (6).
E il Re gli ha conferito, massimo degli onori, il Collare dell'Annunziata.
Nella primavera del 1862, pregato da Urbano Rattazzi, il Pallavicino andò Prefetto a Palermo, dove gli antichi autonomisti ponevano ogni giorno a pericolo la pace pubblica.
Niuno meglio di lui, apostolo efficacissimo della unità, potea bastare ad infrenar i riottosi: e poiché a tale intento occorreva, innanzi ogni cosa, sinceramente e saldamente attuare le libertà statutarie, a tutt'uomo e'si ingegnò di incarnarle in ogni membro, in ogni ramo della Amministrazione.
Tra poco approdava a Palermo il Garibaldi. Intonato da lui, suona ovunque il nome della eterna città: e alla volta di questa ei giura lanciarsi, a sconficcarvi la doppia balìa di Napoleone e del Papa. Stava il Pallavicino in tra due. Prefetto, avrebbe dovuto obbedire al Governo, che gli ingiungeva di sconsigliare, di attraversare il tremendo conato. Intimissimo del Generale e impaziente al pari di lui, sedotto sentivasi a condiscendergli. Ma frattanto, cessatogli il titolo prefettizio, si ricondusse alle provincie settentrionali, cercando compenso alle fatiche, alle angoscie politiche, negli ozî campestri e nelle dolcezze della famiglia.
Era fin dal febbraio del 1860 Senatore del Regno; e nel febbraio del ‘61 nominato Vice-Presidente.
Tenendo gli occhi continuamente alla meta suprema dell'unità, anche nell'Assemblea Senatoria, avea messo avanti infiammati propositi, che, per quantunque alle temperie e alle condizioni di allora non apparissero confacenti, lasciavano pur sempre profonde impressioni, e suscitavano il desiderio di quandochessia satisfarli. Sopra tutto egli instava che il paese si facesse forte nelle armi di terra e di mare, e si affermasse risolutissimo di far valere a ogni costo, incontro ad ogni pericolo, la sua maestà di Nazione.
Nella Tornata dell'8 giugno 1860 avea combattuto la cessione di Nizza alla Francia; e nel 6 luglio dell'anno medesimo avea perorato pel prestito dei 150 milioni. Poi, nell'aprile del ‘63, domandava che, in omaggio del domma unitario, il Codice Penale Sardo si estendesse eziandio alla Toscana; e nel 6 dicembre ‘64 avversava la Convenzione pel trasferimento della Capitale a Firenze.
Non mi è noto che d'indi innanzi abbia più posto piede in Senato. Pur troppo, non glielo consentivano la instante vecchiaia e l'affralita salute. Nondimeno, dal tranquillo ritiro di San Fiorano o di Genestrelle i suoi pensieri notte e dì si affisavano nella Nazione. E quando più si mostravano irosi i dibàttiti, e le gare le invidie le gelosie delle parti politiche minacciavano di soprastare al vero e sommo bene della libertà e della patria, egli interponea la sua voce, e con mòniti brevi, ma fermi e inflessibili, i contendenti richiamava al Vangelo dei plebisciti.
In questi ultimi anni, a poco a poco, ogni lena corporea lo abbandonò. Ma rimaneagli desto e pronto lo spirito; specie, a discorrere dei primi studî e delle corse vicende: talché la moglie e la figlia, che intentamente gli stavano accosto, non ismisero mai la illusione che almeno un fil di vita preserverebbe ancora quel caro capo alle affettuose loro sollecitudini. Quand'ecco, inopinatamente, nel pomeriggio del 4 agosto del ‘78,
«Non come fiamma che per forza è spenta,
Ma che per sè medesma si consume,
se ne andò in pace l'anima contenta»(7)

Immenso, ogni dove, il corruccio. Per vari giorni le ali del telegrafo non ebbero tregua: tanti erano i dispacci qui e là. Il Re, i Presidenti delle due Camere, i Ministri, i Municipî di Milano, di Torino, di Napoli, di Palermo, ed altri parecchi, e le più ragguardevoli Associazioni politiche non vollero indugiare un istante a far palese l'acerbità del comune rammarico per lo sparire di lui, che, in tutta la lunghezza dell'età sua, con fede ardentissima, con ferreo carattere, con costanza imperterrita, era venuto mostrando come debbasi amare e come soccorrere il paese natìo, massime se questo paese ha nome "L' Italia!"
Nella Biblioteca Senatoria abbiamo di Giorgio Pallavicino i libri e gli opuscoli che accenno:
"Lettere scritte a Vincenzo Gioberti" negli anni 1850-‘51-‘52;

"Scritti politici sulla questione italiana", 1855;

"Non bandiera neutra!" 1856;

"Epistolario politico 1855-‘57 del Pallavicino e Daniele Manin, con note e documenti";

"Della questione romana", 1863;

"Tre lettere politiche", ottobre e novembre 1865 ;

"Non disarmo!" marzo 1866.

La città di Torino, custodirà, prezioso legato, gli autografi che il Pallavicino avea di Gioberti, di Manin, di Guglielmo Pepe, e di altri illustri.
Le Memorie, ch'ei compendiò della vita sua e de' suoi tempi, correranno in istampa per diligenza della vedova riconoscente.
E la figlia degnissima la marchesa Anna d'Angrogna, se ne andrà altiera che il padre abbia voluto commettere alla sua fede (oh quale ricordo!) la posata di legnodi che servivasi nello Spielbergo.

(1) Salomone, Proverbi, XXII, 6. Trad. del Deodati.
(2) Atto Vannucci.I martiri della libertà italiana. Ed. Treves, Milano, 1872, pag. 218.
(3) Atto Vannucci,ib. Nota a pag. 219.
(4) Atto Vannucci,ib. pag. 221.
(5) Lettera a Giorgio Pallavicino, 9 novembre 1855. Epistolario politico Manin e Pallavicino, per E. Maineri. Milano, Tip. Bertolotti, 1878, pag. 5.
(6) Isaia Ghiron I benemeriti della unità e della indipendenza d'Italia. Milano, Ed. Battezati, 1877, pag. 61.
(7) Petrarca, Trionfo della morte, I, 160.

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 4 febbraio 1879.