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LANZA SPINELLI Francesco

13 settembre 1834 - 30 maggio 1919 Nominato il 10 maggio 1884 per la categoria 21 - Le persone che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria provenienza Sicilia

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Adeodato Bonasi, Presidente

Signori senatori,
[...]
Per dolorosa singolare coincidenza di sventure, era destino che la gentile Firenze e la forte Palermo dovessero essere private quasi nello stesso giorno di due dei più illustri loro figli, il principe Corsini, ed il principe Lanza di Scalea, i quali, per le alte loro benemerenze, erano onore delle città e delle regioni che loro avevano dato i natali, e dell'Italia alle cui sorti avevano consacrata tutta la vita.
Per altra non meno impressionante coincidenza di casi e di fortune, di genialità di tendenza e comunanza di opere egregie, tra quei due uomini veramente insigni correvano tanti e così intimi rapporti di spiccata somiglianza da parere quasi, anche per l'età, gemelli, sebbene nati in plaghe tanto distanti e separate dal mare e così diverse d'indole e di stirpe. Comune infatti avevano l'antichissima nobiltà di origine, le onorande tradizioni storiche, l'individuale fulgore d'ingegno, l'indomabile energia di lavoro, l'elevatezza del carattere, la varia e vasta cultura, l'amore a tutto che è bello e buono e la illimitata devozione alla patria.
Francesco Lanza Spinelli principe di Scalea vide la luce in Palermo il 13 settembre 1834, e ivi si è spento nella prima ora del 30 maggio, in mezzo ad un compianto così generale e profondamente sentito da assumere l'aspetto di lutto piuttosto famigliare che cittadino, ed ebbe in tutta la penisola l'eco più dolorosa.
A dare un'idea della tempra della fiera razza di gentiluomini da cui discendeva il venerato collega, la cui severa immagine a tutti ci sta ancora viva dinanzi, basta ricordare un fatto che nella sua semplicità ne scolpisce il carattere.
Il di lui padre Pietro principe di Scordia in un vespro del 1846, quando già gli animi degli italiani dalle Alpi al Lilibeo erano nel fermento delle più fervide speranze patriottiche, stava conducendo a passeggio la nidiata dei teneri suoi figliuoli nella incantevole marina di Napoli, allorché d'un tratto scorse avanzarsi la carrozza reale. Ferdinando II, che uno dei Lanza aveva avuto a ministro, vedendo il principe coi figli famigliarmente lo salutava con quel fare in apparenza bonario che conservò anche dopo le crudeli repressioni che funestarono il suo Regno. Ma lo Scordia non solo non rispose al saluto, ma con rapido gesto impose ai figli di non levarsi il cappello, repugnando all'uomo integro, che altamente sentiva l'amore alla sua terra nativa, anche un omaggio di ipocrita convenzionale reverenza al despota che la conculcava ed umiliava.
Quest'atto di sdegnoso disprezzo verso l'onnipotente sovrano, il cui ricordo mai si cancellò dalla mente del giovinetto Francesco, allora dodicenne, fu una specie di consacrazione della sua vita alla ribellione contro ogni tirannia domestica o straniera, alla stessa guisa che dei futuri destini di Annibale, ragazzo di nove anni, decise il giuramento impostogli dinanzi agli Dei di perpetua ostilità contro i nemici di Cartagine sua patria.
Dopo la miseranda fine della rivoluzione del 1848, iniziatasi sotto i felici auspicî che tante liete speranze aveva suscitate, colla restaurazione dei Governi caduti si scatenò la imperversante reazione, specialmente borbonica, per la quale i più illustri cittadini dei due Regni vennero inviati alle galere o condannati al bando. Fra questi ultimi fu compreso lo Scordia, per avere in Sicilia fatto parte, quale ministro, del Governo, disgraziatamente provvisorio, dell'isola; e perché i figli, nello schianto di dover abbandonare la diletta loro dimora non avessero a patire danno anche nella educazione, scelse Parigi a stanza del suo esilio, ove avrebbe potuto impartirla più ampia e completa. Ma fatalmente egli non doveva esserne la guida, né avere la consolazione di rivedere la patria, la morte avendolo colto a soli 49 anni. Sotto quindi l'amorevole direzione della madre Eleonora Spinelli, elettissima donna, Francesco, insieme ai fratelli, fu con ogni più sapiente cura allevato al culto di ogni civile virtù e delle più nobili aspirazioni. E siccome egli da natura era stato favorito d'ingegno vivacissimo e pronto, di tenace memoria, di gran forza di volontà e di spiccata propensione ad ogni geniale occupazione, non tardò ad appassionarsi agli studi letterari, e particolarmente della storia, mandandoli di pari passo con quello delle lingue straniere, che si rese così famigliari da parlarne parecchie con ammirata spigliatezza.
Ma lo studio che sopra tutti lo attrasse fu quello della storia delle arti belle, per le quali ebbe un culto che mai si raffreddò neppure nei tempi delle maggiori agitazioni politiche, ed al quale sempre tornava con rinnovato ardore tosto che gliene lasciassero l'agio i doveri della vita pubblica, che per lui ebbero sempre imperiosa prevalenza. Non vi è infatti in Europa Museo o Galleria pubblica o privata di qualche importanza che non abbia ripetutamente visitata e studiata, e del suo gusto raffinato e della singolare competenza, riconosciuta dagli stessi artisti di maggior fama, dei suoi giudizi negli arguti raffronti che soleva fare discorrendo coi fortunati che avevano la gioia di godere della attraente sua conversazione, non v'è chi non serbi incancellabile ricordo.
Ma gli studi prediletti non dovevano per lui essere che premio riservato ai sagrifizi impostigli dalla vita pubblica, cui, ubbidendo all'alto sentimento di devozione alla patria nel quale era stato allevato, finì per consacrarsi quasi esclusivamente.
Non esitò infatti un istante ad abbandonare Parigi, la famiglia, gli studi e gli agi per correre a farsi soldato appena spuntò la speranza della riscossa. Subito dopo il discorso, rimasto storico, che Napoleone III rivolse all'ambasciatore austriaco Hübner in occasione dei ricevimenti di capo d'anno del 1859, che per gl'italiani fu il sospirato squillo di guerra, cui fece degna eco il memorabile grido di dolore del gran Re Vittorio Emanuele II, lo Scalea si presentò alla Scuola militare d'Ivrea per iscriversi volontario ai corsi accelerati per divenire ufficiale, e ne uscì in tempo per prendere parte con molto onore, quale sottotenente nel Corpo distinto dei Granatieri di Sardegna, a tutte le brillanti battaglie di quell'anno fatidico, che furono il preludio felice di tutte le ardite imprese e delle titaniche lotte, che finalmente dovevano sul Piave coronare gloriosamente le secolari aspirazioni della completa liberazione d'Italia.
Conclusa allora inaspettatamente la pace di Villafranca, all'annunzio delle sbarco di Garibaldi a Marsala, il Di Scalea, ottenute le dimissioni, depose la nobile divisa di granatiere per indossare con ardente entusiasmo la camicia rossa, e da Milazzo al Volturno combatté così strenuamente da guadagnarsi sul campo l'ambita ricompensa della medaglia d'argento al valore.
Felicemente costituitosi il Regno d'Italia, nella tregua che appariva dover essere necessariamente non breve, egli lasciò le armi per entrare nella diplomazia, alla quale lo designavano l'illustre casato e l'adeguata preparazione, e vi avrebbe certo raggiunte le più alte cime, se l'amore alla nativa isola ed alla famiglia, ed il bisogno di curare l'avito patrimonio, per anni rimasto in abbandono, non l'avessero costretto a prendere stabile dimora nella sua Palermo.
Ma qui una nuova vita a lui si apriva. Né le cure de' suoi estesi feudi, né lo studio delle innovazioni sociali, di cui primo si fece campione, per migliorare la condizione dei lavoratori della terra e delle miniere zolfifere, né le attrattive della famiglia, che fu sempre la grande sua consolazione, come la tentazione delle seducenti, serene soddisfazioni che gli avrebbe assicurate il ritorno al culto esclusivo delle lettere, valsero a distoglierlo da ciò che reputò precipuo dovere di buon cittadino, dall'occuparsi cioè delle amministrazioni locali, e di tutti i pubblici interessi che vi si rannodano, con intensa assidua applicazione e dal dedicare alla politica nazionale, prima nella Camera, e successivamente nel Senato, tutto il tempo che il più vasto campo e la maggiore difficoltà dei più importanti problemi esigevano, lasciando ovunque traccie luminose della molteplice, incomparabile sua attività.
Persino nel pauroso periodo che molti spingeva alla fuga dinanzi ai pericoli della terribile invasione del morbo asiatico, egli imperterrito, malgrado le ansie per la famiglia, di cui era così tenero, continuò nel disimpegno delle infinite cariche affidategli dalla universale fiducia, e con amore ed abnegazione pari alla estrema gravità delle dolorose, difficili condizioni di quel triste momento, concorse con tutte le sue forze, e col sussidio dell'avita fortuna alle provvidenze per i più urgenti soccorsi ai colpiti dal male, e ad infondere negli altri coll'esempio il coraggio e la calma necessari ad assicurare loro pietosa assistenza, tanto da meritare la medaglia d'oro dei benemeriti della salute pubblica decretatagli, prima ancora che dal Governo, dalla popolare riconoscenza.
Troppo lungo riuscirebbe il discendere a particolari intorno alle innumerevoli altre manifestazioni della meravigliosa energia di questo principe, in tutto veramente tale, ma per non passarle onninamente sotto un silenzio che sembri sconoscente oblio, mi limiterò a riprodurre la lettera che il presidente della Società italiana per la storia patria, prof. Sansone, diresse al figlio dell'insigne estinto onorevole principe Pietro nel giorno della scomparsa del grande cittadino, lettera che in poche linee mirabilmente riassume quasi tutta la complessa sua opera:.
"Dolorosissima è per noi", scriveva il Sansone, "la notizia della morte del suo illustre genitore. Con l'estrema dipartita di lui questa Società perde il suo presidente onorario, Palermo un cittadino, un filantropo, un patriota, uno spirito equanime venerato da ogni classe sociale, che ammirava in lui l'esemplare rettitudine, il mirabile buon senso e la squisita bontà. Perde un benemerito cittadino, che nei giorni lieti, nei giorni tristi, in qualunque occasione lo trovò sempre primo fra i primi, preside moderatore di tutti i convegni, di tutte le pubbliche manifestazioni aventi il patriottico fine di difendere un diritto, di protestare contro un'ingiustizia, di rialzare il decoro e la fortuna di questa terra, che fu ognora in cima de' suoi pensieri. Perde un sincero filantropo che scrisse con fede di apostolo una pagina d'oro nella storia della carità cittadina, promosse con fiamma di passione i pubblici santuari del dolore e della sciagura, conservò, a ottantacinque anni, la sua infinita tenerezza agli orfani dei contadini morti in guerra, che tenne, con interesse commovente, come figliuoli. Perde un integerrimo patriota, ultimo gentiluomo del vecchio stampo, la cui vita fu tutta un'opera di figliale devozione per questa vetusta madre, anima della sua anima, culto del suo cuore".
L'ammirazione e la gratitudine nostra verso tutti gli artefici della ricostituita unità nazionale, tra' quali parte così degna ebbe il Di Scalea, che in sé rispecchiò tutte le virtù di quel patriziato Siculo che così potentemente vi contribuì, non rimanga sterile tributo di sentimentale riconoscenza, ma sia a tutti stimolo, specialmente in quest'ora in cui l'Italia deve essere di un solo volere per ottenere il completo riconoscimento dei sacri suoi diritti con eroici sacrifizi vittoriosamente rivendicati, a dimenticare ogni gara personale ed a stringerci in un unico fascio, per non mirare ad altro che a rinvigorire i sentimenti che di un popolo diviso ed oppresso ci fece una nazione unita, libera e grande, che a nessuno viole imporsi, ma da tutti vuole essere rispettata.
Sarà questo il più alto, il solo degno omaggio alla memoria dei generosi che, a raggiungere questo sublime ideale, tutta la loro vita spesero. (Benissimo). [...]
NITTI, presidente del Consiglio, ministro dell'interno. Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NITTI, presidente del Consiglio, ministro dell'interno. A nome del Governo, mi associo alle parole di compianto pronunciate da S.E. il Presidente e dai senatori Fano e Mazzoni in memoria dei senatori defunti [...]

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 25 giugno 1919.