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JACINI Stefano

20 giugno 1826 - 25 marzo 1891 Nominato il 06 febbraio 1870 per la categoria 03 - I deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio provenienza Lombardia

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Domenico Farini, Presidente

Signori senatori! Alle due antimeridiane del 25 di marzo moriva a Milano il conte Stefano Jacini che era nato su quel di Cremona, a Casalbuttano l'anno 1826.
Discendente da ricca famiglia, Stefano Jacini educato in Isvizzera, la mente nutrì a severi studi, l'animo saldamente temprò: la educazione e gli studi avvalorò col lungo viaggiare.
Due scritti sulla proprietà fondiaria e le popolazioni agricole della Lombardia e sulle condizioni della Provincia di Sondrio, notevoli per accurate ricerche, osservazioni sagaci, franche opinioni, dierongli notorietà fra gli studiosi delle patrie condizioni.
La liberazione del 1859, che di lì a poco seguì, lui, già chiaro cultore delle dottrine economiche, attrasse alla politica; e v'ebbe, nel gennaio 1860, il ragguardevole ufficio di ministro dei lavori pubblici nel Ministero che, auspice il conte di Cavour, bandito il tergiversare, accoglieva le annessioni dell'Emilia e della Toscana.
Risolutezza inviatrice all'unità che, in un agli ostacoli superati ed agli scongiurati pericoli, mette bene ricordare agli immemori.
Alla VII legislatura il collegio di Pizzighettone lo deputò; lo stesso od altri lo mantennero nella Camera per le tre successive (VIII, IX, X).
Nel febbraio del 1861, quando si adunarono a parlamento i rappresentanti di tutta Italia, non essendo stato rieletto a primo scrutinio, si fece scrupolo di lasciare il portafoglio; lo ripigliò e lo tenne, dal 28 settembre 1864 al 17 febbraio 1867, nei ministeri presieduti dal Lamarmora e dal Ricasoli.
Non sta a me enumerare i molti e vari argomenti di che trattò nella Camera; non a me discorrere il molto ed il bene che operò da ministro. Pure dirò avere egli unificati i diversi servizi, raggruppate le reti ferroviarie; con prestezza e parsimonia mirabili provveduto al trasferimento della capitale in Firenze; né paia vano o piccolo ricordo essere tuttora le sue, le leggi sulle opere pubbliche e sulle espropriazioni per pubblica utilità. Merito suo la efficacia con che patrocinò il traforo del San Gottardo; suo onore l'avere messo ingegno e consiglio nell'azione diplomatica che precedette la guerra del 1866.
Nominato senatore nel marzo 1870, qui pure affrontò i più alti problemi: cito i discorsi sul trasferimento della capitale a Roma, sulla riforma della legge elettorale e della comunale, sul riordinamento dell'imposta fondiaria, la interpellanza sugli intendimenti del Governo circa alle conseguenze dell'inchiesta agraria. Ed il Senato ed il Governo gli diedero spesso segno del gran conto che ne facevano, ricercando lume dal suo sapere nell'inchiesta ferroviaria, nella Giunta superiore del catasto, nell'inchiesta agraria.
Con solerzia, con amore indicibile questa presiedette, ne fu l'anima; stanne a documento la stupenda raccolta di fatti e di notizie, di avvertenze e di proposte, cui la sua penna contribuì col trattare le condizioni della regione lombarda, collo esporne nel proemio i criteri ed il metodo, e scrivendone la relazione finale: specchio fedele, quadro smagliante dei bisogni e della vita dei campi.
Né di ciò soddisfatta la sua operosità, né bastandogli, oppure parendogli poco efficace la tribuna, da cui tratto tratto rimaneva lungamente lontano, gli argomenti medesimi ed ogni altra ardua controversia sull'ordinamento dello Stato e dei partiti, sulle fasi della questione romana, sulla politica interna ed estera, per le stampe illustrava, con vena e lena inesauribili dibatteva.
Schiettezza piuttosto unica che rara improntavano i discorsi e gli scritti suoi; vi luccicavano la originalità del pensiero, la vivezza del dire; il ragionare ne confortavano profonde cognizioni storiche, e, quel che più monta, gli davano vigore un singolare coraggio, che è precipua condizione di vita sana fra popoli liberi. (Bene).
Sciolto da ognuno, non lo crucciava far parte da sé; non si peritava di opporsi a ciò che reputasse un fatale andare, per quanto a tutti potesse spiacere; spargeva un seme; al tempo maturarne, ad altri coglierne il frutto!
Uomo speculativo usava come se fosse fuori della battaglia parlamentare; alle idee non cercava puntello nella paziente industria, che coi contatti e coi contrasti d'ogni giorno ha virtù di attuarle; sicché la sua critica, per quanto arguta o mordace fosse, non valse ad abbattere, né la dottrina sua ad instaurare nuovi ordinamenti.
Il Jacini, adunque, non diede alla politica italiana lo impulso di che forza d'ingegno, larga coltura, eletto animo lo avrebbero fatto capace; sebbene il nome ne andasse bellamente congiunto allo studio dei più alti temi politici ed amministrativi, dei ponderosi problemi sociali ed economici, a vari e cospicui uffici dello Stato.
La morte sua in età non tarda, mentre la vigoria del corpo e della mente davan conforto a sperare sarebbe per un pezzo a noi serbato, sarà a lungo rimpianta. Tanta sciagura rimpiangeranno tutti quelli che, come noi, veggono e sentono quale iattura sia la perdita degli insigni, che con vertiginoso precipitare ci vengono tolti; e sanno quanto valesse quest'ultimo superstite del Ministero che nel 1860 osò le annessioni dell'Italia centrale; questo statista il cui nome rimarrà unito ai maggiori fatti ed ai fasti di quell'anno e dei sei che seguirono. (Molto bene, benissimo).
DI RUDINÌ, presidente del Consiglio. Domando la parola.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.
DI RUDINÌ, presidente del Consiglio. Poco avrei da aggiungere alle nobili parole pronunziate dall'illustro Presidente del Senato; ma non posso a meno di dire che il Governo si associa al rammarico manifestato, rammarico che è comune e a tutti coloro i quali hanno vivo nell'animo il sentimento di riconoscenza per gli uomini che hanno fatto il bene del proprio paese.
E molto bene fece senza dubbio il senatore Jacini; fece bene come uomo di Stato, come pubblicista, come pensatore.
Morì solitario, direi quasi, ma era uno di quei solitari che non si poteva a meno di ammirare per una luce vivissima che si sprigionava da lui e che illuminava tutti coloro che lo riguardavano. (Bene).

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 13 aprile 1891.