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CORRADINI Enrico

20 luglio 1865 - 10 dicembre 1931 Nominato il 01 marzo 1923 per la categoria 20 - Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria provenienza Toscana

Commemorazione

 

Luigi Federzoni, Presidente

"PRESIDENTE. Ancora una volta, onorevoli colleghi, in questi giorni contristati per noi di tanti gravi lutti, devo adempiere il triste e amaro ufficio di commemoratore di coloro che ci lasciano per sempre; e oggi devo adempierlo per una morte che infligge al mio spirito quasi lo strazio d'una mutilazione. Voi vorrete essermi indulgenti, se lo stesso turbamento causato dal tumulto degli affetti mi impedirà di parlarvi degnamente dell'insigne Italiano che ci è mancato, di Enrico Corradini.
Forse questo nome, dopo essere stato per vent'anni oggetto di stolto dileggio ancor più che di partigiana esecrazione, non dice neanche adesso a taluni la propria grandezza. L'altezza di una mente e la santità di un apostolato trovano lento e difficile riconoscimento da parte di quelli che si sono convertiti alle idee solo in quanto sono suffragate dalla forza vittoriosa. Ma i vecchi, ai quali fu spasimo e tormento dover vivere la dolorosa vigilia d'un'Italia disamorata della gloria e senza coscienza di sé, e che invocarono da Dio solamente di poter vedere l'alba di un rinnovamento della Patria, e i giovani che su quell'alba balenante di sangue si affacciarono alla vita e alla morte per creare col proprio sacrificio il miracolo del riscatto, sanno bene, gli uni e gli altri, chi fu e che cosa fu Enrico Corradini costruttore di verità e guida di anime. I vecchi, che erano i giovani d'allora, ascoltarono la sua parola come un richiamo ammonitore della storia, come il conforto vitale della speranza per aspettare, per resistere, per preparare le volontà all'azione. I giovani di adesso, che hanno saputo combattere e vincere, hanno venerato in lui la fede del veggente, che avendo creduto nel trionfo, dava la certezza mistica dell'avvenire.
Enrico Corradini si era appena laureato nell'Istituto di studi superiori della sua Firenze, e volgeva l'intelletto arricchito di molta e varia cultura umanistica a un'attività puramente letteraria, quando l'Italia cadde percossa e accasciata dalla sventura del 1° marzo 1896. Essa aveva perduto molto più che una battaglia: il sentimento del proprio valore e dei propri fini di nazione. dalla visione, dirò meglio, dal patimento di quel dramma nazionale scaturì la vocazione di Enrico Corradini; vocazione, che può chiamarsi con esattezza la reazione a Adua, la rivincita su Adua, se nella denominazione della sfortunata ma non ingloriosa giornata campale si comprendano sopra tutto le vaste e funeste conseguenze che ne derivarono per la vita politica e spirituale del Paese. Una viltà mascherata di saggezza conservatrice aveva chiamato in soccorso la frenesia distruttiva dei facinorosi per impadronirsi del comando e spartire il bottino; l'ebbrezza della negazione e del dissolvimento, nel gergo saccente delle cattedre profanate, prendeva veste solenne di dottrina storica, filosofica, scientifica di fronte agli smagati pregiudizi che erano stati retaggio del passato; si accettava, con una rassegnazione che voleva essere cieca, l'ingiusta ma fatale menomazione del prestigio italiano in ogni parte del mondo; si proclamava un beneficio e quasi un vanto l'allontanarsi, ogni anno, di centinaia di migliaia di nostri lavoratori ignari della loro Patria, che andavano a fornire la materia prima per l'incremento demografico ed economico alle adolescenti nazioni d'oltre mare. E sorgeva minaccioso il socialismo, allora, in Italia, saturnale di iraconde cupidigie piuttosto che impeto vero di rivoluzione, ma temuto e perciò non fronteggiato, anzi accarezzato da una borghesia che amava troppo i suoi interessi per poter difendere i suoi diritti e compiere i suoi doveri, e che sembrava prefiggersi unicamente l'intento di ritardare il più possibile, a costo di qualsiasi compromesso, il suo tramonto.
Non tutti accettavano questa condizione di cose; ma pressoché tutti tacevano, poiché mancava una direzione ideale, poiché non si vedeva una meta, e facevano difetto le energie e il coraggio per lanciare un appello. La più nobile, la più sacra vita era stata spenta a Monza, per nefanda espiazione dell'immaturità di tutto un popolo. Francesco Crispi moriva abbandonato, in mezzo a una ingratitudine che somigliava a un esilio. La sdegnosa protesta di Giosuè Carducci era caduta nel vuoto, suscitando soltanto, nel primo anniversario della sconfitta, l'eco oscena di un'apocrifa parodia. Solitario e sconosciuto, Alfredo Oriani si poneva il quesito disperato del perché del Risorgimento, come mai, cioè, da tanto prodigio di genio e di eroismo fosse uscita una nazione incapace di assolvere una missione nel mondo.
Nella riscossa virilmente credette, la riscossa concretamente volle, pensò, educò Enrico Corradini. L'8 marzo 1896, parlando al plurale, ma in realtà solo in nome proprio, egli aveva scritto sul Marzocco: "In un momento in cui ci sembrava che i nostri spiriti più fossero chiusi in se stessi, noi giovani che tante cose credevamo di avere obliate, che tanto tedio opprimeva, o tanto ardore di individuali aspirazioni, comunicammo a un tratto con l'anima del nostro Paese violentemente"". Erano trascorsi sette anni di studio, di affinamento, di meditazione, di rielaborazione silenziosa. Nel 1903 la fede aveva già un programma preciso. Preludendo il 3 novembre di quell'anno alla rivista Il Regno, Enrico Corradini dichiarava il suo proposito di fare di questa la voce di quanto affrettavano, se non altro col desiderio, la resurrezione della Patria. Ma egli non parlava il linguaggio stanco di quel patriottismo romantico che aveva maturato in sé il germe della propria degenerazione umanitaria e pacifista. Egli ardiva rifarsi alla romanità, invano, per lui, assoggettata a un processo di decomposizione critica da indirizzi stranieri che principalmente in Italia avevano trovato credito e seguito; egli raccoglieva dal labbro di Cesare, dalle pagine di Livio il senso d'una perenne predestinazione di Roma.
Non essere compreso se non da pochissimi era logicamente la sorte di lui, in quel remoto tempo; non conoscere altra notorietà fuor di quella del sarcasmo astioso e della volgare contumelia, era il compenso spettante a chi si metteva così temerariamente contro corrente.
Dalla fondazione del Regno in poi, Enrico Corradini non si occupò più di letteratura se non in connessione e a servigio dell'alta causa a cui aveva ormai dedicato tutto il fervore religioso del suo spirito. Drammi e romanzi, anche quando raggiunsero, come Le viedell'Oceano e la Patria lontana, stupenda pienezza di espressione artistica, furono solo riflessi fantastici del suo pensiero nazionalista. Ed egli nutrì questo pensiero di tutte le esperienze più oscure e penose dell'Italia prebellica. Visitò i paesi dell'emigrazione mediterranea e transatlantica, dove i figli obliavano facilmente la madre che non aveva potuto dar loro né pane né consapevolezza, e i figli dei figli rinnegavano l'origine come un'inferiorità; peregrinò nelle terre irredente, consolandosi ed esaltandosi nello scoprire ancora degli Italiani che, pur dimenticati, negletti, talvolta derisi dai più avventurati fratelli regnicoli continuavano a credere fermamente nell'avvenire nazionale e a difendere la propria nazionalità per conto della comune famiglia, quali guardie alla frontiera già assalita; esplorò e riconobbe i lidi dell'Africa che era stata di Roma, e che, rifatti sterili e derelitti, attendevano che la civiltà di Roma vi fosse ricondotta dall'imperativa legge della storia.
Ecco delinearsi chiaramente, per opera di Enrico Corradini, quel corpo unitario di principi e di postulati che diede vita al nazionalismo italiano. Alla lotta di classe egli contrapponeva la collaborazione delle classi armonicamente organizzate. Alla solidarietà internazionale del proletariato contro il capitalismo, sostituiva la lotta delle nazioni proletarie (tipica, fra queste, l'Italia) contro le nazioni egemoniche. In luogo della morale universalistica del pacifismo, predicava il mito della guerra vittoriosa. Era impossibile affrontare più audacemente i dogmi ideologici dominati e gli stati d'animo diffusi in ciascuno degli aggruppamenti politici e sociali allora esistenti. Quella sfida altiera ottenne il risultato di offrire un bersaglio comune alle fazioni sovversive, ormai abituate a vincere senza lotta, e a molti sedicenti elementi d'ordine, i quali paventavano di essere trascinati da difensori non desiderati ai pericoli di un'effettiva difesa. In quel tempo, che si conchiuse con lo scoppio della guerra mondiale, il nome di Enrico Corradini fu glorioso segnacolo in vessillo per i pochi che, avendo avuto la ventura di riscaldarsi alla fiamma della sua passione, sentirono il dovere di mettersi con lui per la via buia e perigliosa, la quale era tuttavia la sola che potesse condurre verso la meta sognata.
Con lo scoppio della guerra mondiale, il pensiero di Enrico Corradini si trasfigura, la sua fede di italianità acquista di profondità e si fa sofferenza. Egli afferma subito che noi non potremo restare assenti dalla tragedia attraverso la quale l'Europa subirà un totale mutamento. Né egli si cura di sapere donde provengano coloro che esprimono e sostengono la stessa persuasione. Fino a ieri, le veementi polemiche, i contraddittorii clamorosi, gli urti violenti per le piazze pro e contro una dottrina politica; ormai, non possono esserci più che due forze schierate l'una contro l'altra su un terreno tremendamente attuale, quella che invoca l'intervento e quella che cerca di ostacolare con ogni mezzo l'intervento. Bisogna volgere le spalle a molti cauti amici di ieri; e, per il più alto e grave cimento, stringersi con molti avversari di ieri. Ma dove sono più le antitesi di programmi e di interessi politici? La guerra scompone e trasforma tutte le idee in tutti gli spiriti. Nessuno è eguale a ciò ch'era avanti l'immenso evento. Gran mercé, e ineffabile gioia, per Enrico Corradini, vedere che tanta parte dei principi da lui sentiti, enunciati e propugnati con così chiaroveggente fermezza, sono divenuti patrimonio comune di quanti italiani hanno ricevuto dalla prova terribile della guerra la rivelazione di quelle fondamentali verità di vita.
Essere stato fra coloro che più ardentemente hanno voluto l'intervento, avere cooperato a sorreggere con le moltiplicate energie del proprio entusiasmo e della propria disperazione la resistenza del Paese fino alla vittoria, avere salutato nella vittoria il coronamento portentoso e provvidenziale della propria opera: non era compiuto così il ciclo di un'attività di apostolo e di atleta, la quale aveva già ottenuto il supremo compenso nella sua realizzazione?
No: c'era ancora qualche cosa da fare, per Enrico Corradini; c'era da continuare la buona battaglia, finché la vittoria non fosse per sempre salvata e messa solidamente a base dell'avvenire. Le avvisaglie di una minoranza non bastavano più. La guerra era stata combattuta dal popolo. La crisi spirituale che colpiva il paese dopo la guerra non poteva essere superata se non col popolo. Occorreva penetrare nell'anima di questo, conquistarla infondendogli la coscienza di ciò ch'esso aveva fatto, raccogliere nuovamente gli uomini della trincea per un'azione che assicurasse la salvezza e il potenziamento della vittoria. A ciò abbisognavano titanico vigore e coraggio di supreme responsabilità. Così il Fascismo, primo moto di masse nella nostra storia, doveva attuare la propria rivoluzione rigeneratrice della Patria. In Roma redenta dalla giovinezza Enrico Corradini, con gesto di riconoscente devozione, consegnava al nuovo grande Capo sorto dal popolo quella che era stata la milizia degli antesignani, la quale prendeva posto, fraternamente accolta e irrevocabilmente fedele, sotto i neri gagliardetti del Littorio. Era il sogno realizzato; era la realtà d'un'Italia finalmente capace di gloria e di avvenire e affidata a chi ne sarebbe stato veramente il Duce degno e sicuro. Da quel giorno Enrico Corradini, senza nulla perdere della sua autorità né del suo fervore, fu semplicemente un fascista.
Chiamato a far parte, per la 20a categoria statutaria, di questa assemblea, vi godette la più alta e meritata estimazione, inspirando costantemente ogni suo atto alle idealità che furono la luce di tutta la sua esistenza.
Ora egli non è più. Né si possono ripetere senza angoscia queste parole. Coloro che lo conobbero ricorderanno e ameranno la candida e generosa bontà di lui finché Dio conceda ad essi di sopravvivergli, e custodiranno l'eredità della sua memoria e del suo pensiero come il tesoro più prezioso dei loro spiriti.
Il nome di Enrico Corradini ascenderà ancora nel tempo. La sua personalità di scrittore mirabilmente originale è impressa nelle prose politiche, coi caratteri più incisivi della migliore tradizione toscana, tutta schietto profilo dialettico e viva limpidezza espressiva. Quelle prose non periranno. E quanto prenderà sempre più di importanza e di bellezza, nella prospettiva storica, la rivoluzione fascista, tanto più elevata e pura rifulgerà la figura dell'uomo di pensiero e di battaglia che seppe presagire e preparare fin dalla remota vigilia il rinnovamento della Nazione.
MUSSOLINI, Capo del Governo. Signori senatori, è con profonda commozione che in nome del Governo e mio mi associo alla nobile ed eloquente esaltazione che della vita e dell'opera di Enrico Corradini è stata fatta dal Presidente della vostra Assemblea.
Nessuno più e meglio del vostro Presidente ha conosciuto intimamente Enrico Corradini in tutta la sua azione di pensatore, di pioniere, di agitatore di idee e di moltitudini.
Si può dire di Enrico Corradini che Egli appare alla soglia del secolo attuale come l'annunciatore di un nuovo tempo imminente. La sua attività di scrittore politico comincia nel 1903 e continua sempre più intensa, sommovitrice e feconda fino a quel 1915 che è l'anno della grande voltata nella storia italiana, l'anno nel quale si vide che si poteva militare agli opposti lati e non essere lontani. Ma nel 1915 non si spiega senza porre tra i fattori che determinarono gli eventi la predicazione di Enrico Corradini, predicazione che era nel 1910 emigrata dai cenacoli fiorentini per scendere a battagliare più da vicino nel centro politico della Nazione e che era uscita dalla semplice formulazione dottrinaria per diventare attività quotidiana di gruppi organizzati. Era quasi nell'ordine naturale delle cose che il partito che aveva nel suo programma la lotta contro il liberalismo, la massoneria, la democrazia ed i socialismo, finisse per incontrarsi con quegli evasi delle diverse scuole socialiste i quali avevano avuto sempre in sommo dispregio almeno tre di quelle forze, contro le quali puntava impetuosamente e ormai vittoriosamente il nazionalismo corradiniano; e avevano combattuto anche una concezione del socialismo: quella del partito, manovratore, accomodante riformismo parlamentare. La guerra voluta e combattuta dalla parte migliore del popolo italiano veniva a consacrare il trionfo di uno dei postulati che aveva infiammato nel primo decennio l'animo di Enrico Corradini, cioè la dimostrazione della capacità militare del popolo italiano, la sua resistenza a sostenere un lungo sforzo guerresco e quindi il naufragio totale e definitivo di tutta quella falsa letteratura, debilitante ed in massima parte importata, secondo la quale l'Italia avrebbe dovuto seguire perennemente la troppo prudenziale e suicida politica del piede di casa. Era fatale che nel 1922 si ripetessero gli incontri del 1915.
Enrico Corradini fondatore e creatore di un movimento che tanta parte aveva avuto nel primo quarto di secolo della storia nostra, comprese che il suo movimento, rimasto sempre minoranza, doveva ormai sfociare nel vasto fiume del fascismo, nel quale confluivano tutte le masse di combattenti e delle nuove generazioni e quelli che battezzati dalla guerra non avevano ai conosciuto la politica e i partiti; fiume che aveva travolto colla rivoluzione dell'ottobre del 1922 tutta la vecchia classe politica italiana.
Enrico Corradini fu sostenitore e attuatore della fusione tra nazionalismo e fascismo operatasi necessariamente e lealmente nel 1923. Nessuno più di lui meritava la retrodatazione della tessera. Egli non era soltanto del 1919 ma del 1896 non solo fascista della prima, bensì della primissima ora.
Enrico Corradini partecipò quindi alla vita del Partito e del Regime: fu gerarca e gregario fedele e disciplinato, membro del Gran Consiglio, componente della Commissione dei Diciotto, collaboratore assiduo a tutta l'opera legislativa del Regime. La Milizia Volontaria lo volle a suo Caporale di onore in riconoscimento solenne di quanto aveva osato e compiuto in difficili tempi.
Altri in altra sede dirà di lui come letterato, giornalista e drammaturgo, uomo politico; mi sia concesso solo di porre in rilievo l'importanza sua di pensatore.
Pochi scrittori politici possono stargli a fianco e per solidità costruttiva delle idee e per conoscenza della storia e per la forma semplice della sua esposizione, doti queste che in particolare rifulgono nel suo ultimo libro, sintesi delle sue concezioni, che ha per titolo "Unità e potenza delle Nazioni".
In questo libro le nuove generazioni fasciste troveranno larga messe di ispirazione all'amore della Patria e una severa norma di vita.
Poco fa il nome di Enrico Corradini fu evocato con l'appello che il rito fascista esige. Al "Presente" gridato dalle Camicie Nere di Roma, hanno fatto spiritualmente eco le Camicie Nere di tutta Italia!.
PRESIDENTE. Propongo che la seduta sia tolta in segno di lutto. Chi approva questa proposta è pregato di alzarsi.
È approvata".

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni,11 dicembre 1931.