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CASTELLI Emilio

30 marzo 1832 - 19 dicembre 1919 Nominato il 23 febbraio 1917 per la categoria 14 - Gli ufficiali generali di terra e di mare. Tuttavia i maggiori generali e i contrammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività provenienza Veneto

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Tommaso Tittoni, Presidente

Onorevoli colleghi! Son trascorsi pochi giorni da quando vi annunciavo la scomparsa di amati colleghi, ed ecco che altre perdite sono venute ad addolorarci.
Il 19 scorso si spegneva in Quarto dei Mille il tenente generale Emilio Castelli, lontano dalla sua Venezia che gli aveva dato i natali il 30 marzo 1832.
Figlio di un insigne patriota, Jacopo, e cresciuto nel culto degli ideali dell'indipendenza nazionale, prese parte, per quanto la sua troppo giovane età gli impedisse di combattere, agli avvenimenti del 1848, che lo videro indossare la verde divisa del battaglione della speranza; fallito il generoso tentativo di quell'anno fu esule con la famiglia a Torino, dove, poco tempo dopo, ebbe la sciagura di perdere il padre.
Entrato poi nell'Accademia militare di Torino, ne uscì nel 1853 ufficiale di Stato maggiore, e ben presto ebbe occasione di segnalarsi.
Destinato a far parte del Corpo di spedizione in Crimea, combatté alla Cernaia ed a Sebastopoli, guadagnandosi la menzione onorevole al valor militare e la medaglia inglese.
Nel 1859, a Palestro, mentre egli si trovava a fianco del Re Vittorio Emanuele II, in quella famosa azione che stupì i valorosi Zuavi, fu travolto sotto il cavallo abbattutogli da palla nemica: ma rialzatosi, inforcò il cavallo di un commilitone ucciso in quel momento, da un proiettile, e corse nuovamente a combattere accanto al Re. Per tale atto di valore ricevette la prima medaglia d'argento. Aiutante di campo del generale Cialdini, col grado di capitano di Stato maggiore partecipò alla campagna delle Marche nel 1860, combattendo ad Ancona e a Castelfidardo, ed in questa seconda battaglia ebbe l'orgoglio di ricevere nelle proprie mani la spada del generale Pimodan, comandante delle truppe papaline, a lui arresosi prigioniero. Prese parte ancora alla campagna nell'Italia meridionale, guadagnandosi una seconda medaglia d'argento negli assedi di Gaeta e Messina, e poi alla guerra del 1866 contro gli austriaci.
Come il suo valore aveva rifulso in tante battaglie, così, costituitasi in unità la nazione, la sua intelligenza e la sua abilità gli guadagnarono la fiducia del Governo, che gli affidò varie missioni diplomatiche e da ultimo lo nominò addetto militare a Parigi. Poi la fiducia della Corte lo scelse a governatore del principe Tomaso, duca di Genova, carica che egli tenne diversi anni, e durante la quale efficacemente contribuì a formare la mente e il carattere di quei che doveva essere il luogotenente generale di Sua Maestà il Re in questa ultima aspra guerra per l'indipendenza.
Raggiunti i più alti gradi militari, fu comandante della divisione militare di Chieti e nel 1890 promosso tenente generale. In quell'anno stesso fu eletto deputato del primo collegio di Venezia per la XVII legislatura, ma, impedito dalle cure del suo comando, non poté prendere parte attiva ai lavori parlamentari. Colpito dai limiti d'età, dové lasciare l'esercito e si ritirò a vita privata nella sua Venezia: tuttavia, spirito attivo e tutto inteso al pubblico bene, chiamato dalla fiducia dei suoi concittadini a far parte dell'amministrazione comunale presieduta dal conte senatore Grimani, resse per dieci anni un importante assessorato. Poi la tarda età e la malferma salute lo indussero a cercare un ben meritato riposo negli affetti famigliari. Ma non fu lunga la quiete. Quando il paese in guerra ebbe bisogno delle opere di tutti i suoi figli, egli seppe ritrovare la sua energia giovanile e, a capo dei Comitato di assistenza civile di Venezia, fu esempio di fervore e di fede e di attività incomparabili e seppe esplicare un'opera veramente preziosa.
I suoi alti meriti furono premiati colla nomina a senatore, avvenuta il 23 febbraio 1917.
La patria perde in lui uno dei più valorosi superstiti delle battaglie del risorgimento, il Senato uno dei suoi membri più venerandi.
Inviamo alla sua memoria un reverente saluto, alla famiglia desolata le nostre profonde condoglianze. (Bene). [...]
ALBRICCI, ministro della guerra. Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ALBRICCI, ministro della guerra. La parola dell'illustre Presidente del Senato ha commemorato la eletta vita del tenente generale Castelli, senatore del Regno. Come bene disse l'illustre Presidente la vita del generale Castelli si schiuse con gli albori del nostro risorgimento, perché vestì la divisa militare appunto negli anni tra il 1848 e il fatidico 1849. La sua vita lo condusse a prender parte a quella spedizione di Crimea, dove si affermò solennemente il problema italiano, e lo guidò poi sui campi di Lombardia a combattere per il principio dell'indipendenza italiana, e su quelle di Castelfidardo, di Gaeta, a combattere per l'unità della patria. Deposta la spada, si rese utile con vita operosa alle civili vicende del suo paese, rappresentando alla Camera, dal 1890 al 1892, il grande collegio di Venezia. Indi sedette nel Senato del Regno.
Questa vita avventurosa gli permise di vedere l'alba e il meriggio, la grandiosa vittoria raggiunta per effetto della costanza e del valore nazionale, perché egli, certo, che aveva visto i momenti grigi e tristi della nostra storia, guardò con fiducia l'avvenire, sicura che la grandezza auspicata della patria non potrà mancare se non falliranno in noi, come non fallirono i nostri padri, la concordia e la fede. (Benissimo).
DIENA. Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DIENA. Alle nobilissime parola pronunciate dall'illustre nostro Presidente e dall'onorevole ministro della guerra in memoria del compianto collega generale Emilio Castelli, consente il Senato che, io concittadino del venerato estinto, mi associ ricordando come Venezia, di cui egli fu fra i più degni figli, ne pianga la scomparsa.
Emilio Castelli non fu soltanto un colto ufficiale, un valoroso combattente, che alla Cernaia, a Sebastopoli, a Palestro, e più tardi ad Ancona e a Castelfidardo, diede prove di insuperabile eroismo e di somma sagacia, meritando reiterate le insegne dei valorosi, ma fu patriota fulgidissimo, operoso cittadino, uomo di altissimo accorgimento e di cuore generosissimo.
Dal padre suo Jacopo, che con Manin, Tommaseo, Avesani, Pincherle, tenne il Governo provvisorio di Venezia, dopo la fortunata riscossa del 22 marzo 1848, e fu il propugnatore costante dell'indissolubile unione di Venezia al Piemonte sotto lo scettro della magnanima dinastia dei Savoia, e che per il trionfo di questa idea sofferse disinganni e amarezze, il figlio Emilio ebbe in prezioso retaggio l'esempio, di una vita nobilmente e operosamente vissuta, e l'amore tenace per le patrie istituzioni e la devozione illimitata per la dinastia che degnamente la impersona.
La memoranda deliberazione del 2 aprile 1849 che l'Assemblea dei rappresentanti dello Stato di Venezia con unanime acclamazione approvava in risposta alla intimazione del maresciallo Hajnau, dopo la disastrosa giornata di Novara: “In nome di Dio e del popolo, Venezia resisterà ad ogni costo”, non perveniva in tempo a riaccendere le ansie e le speranze del mesto e travagliato esilio di Jacopo Castelli, spentosi pochi giorni prima in Torino nella ancor fresca età di 58 anni, ma infiammava ai più patriottici sensi il figlio suo Emilio allora appena diciottenne, che lasciata da un canto la toga onorata nobilmente indossata dal padre, prediligeva dedicarsi alla carriere delle armi, con la fede più salda anche in quell'ora grigia, di potere anch'egli concorrere a cacciare lo straniero da ogni lembo di terra italiana.
Compiuta luminosamente la nobile milizia, conseguito il riposo nel 1890, con il grado di tenente generale, dopo aver rappresentato per breve tempo la sua città nel Parlamento nazionale nella XVII legislatura, egli svolgeva la intelligente sua attività per parecchi anni nell'amministrazione comunale di Venezia, portandovi un giovanile fervore ed una fattività singolare.
Alla dichiarazione della nostra guerra liberatrice, egli, più che ottuagenario, con nostalgico pensiero, si corrucciava di non poter impugnare la spada e seguire i valorosi suoi figli colonnelli Gian Giorgio e Gustavo, e desiderando pur nella tarda sua età di fare opera patriottica, e di contribuire alla resistenza del paese, assumeva la presidenza del Comitato di propaganda e di assistenza civile di Venezia, e chi ebbe come io l'ebbi, l'onore di essere fra i modesti suoi collaboratori, ricorda con ammirazione e riconoscenza, l'attività e la bontà che egli prodigava nel pietoso e difficile ufficio, e come egli sapesse infondere in tutti, e particolarmente nei valorosi segretari, che intelligentemente e amorosamente lo coadiuvavano, tale fervore, da far sì che il Comitato di Venezia, e per l'opera compiuta, e per le provvidenza attuate, tornasse di efficace ausilio alla martoriata città, da meritare il consenso più cordiale da parte della cittadinanza e delle autorità.
Assertore costante del valore e della saldezza del nostro esercito, anche nelle ore più tristi, mai disperò delle fortune della patria, e nei suoi occhi sempre vivi e lampeggianti, luccicavano lagrime di gioia allorché giungevano le auspicate notizie del trionfo dei nostri soldati.
Dopo le angosciose giornate di Caporetto, seguiva con animo anelante e fidente le sorti di Venezia, e non tralasciava di vigilare con amorosa cura, affinché i profughi trovassero quei benevoli aiuti che la grande loro sventura richiedeva.
Ed anche in questi ultimi giorni, da Quarto dei Mille, ove dimorava, il suo pensiero ricorreva a Venezia e ai suoi concittadini più bisognosi e con perspicuità di forma e di pensiero inviava suggerimenti e consigli per lenire la disoccupazione e per provvedere alle classi più disagiate, e da quei suoi scritti ben appariva la chiara e precisa visione che egli aveva di ciò che sarebbe stato a suo giudizio necessario fare per ridonare il pristino ritmo alla diletta sua città.
Io, che ebbi consuetudine con lui, che ne apprezzai con riverenza filiale la bontà d'animo, l'adamantino carattere, l'energia fattiva, aliena da ogni vana verbosità, sento il bisogno di tributare alla sua memoria questo mesto, affettuoso omaggio, e di far preghiera al Senato di consentire che alla famiglia dell'estinto, e alla città di Venezia, che perdette un eminente suo figlio, siano inviate le più sentite espressioni del nostro cordoglio. (Vivissime approvazioni).
MORTARA, ministro della giustizia e degli affari di culto.A nome del Governo, mi associo alla commemorazione fatta dall'illustre Presidente e da altri onorevoli senatori del defunto senatore Castelli, pel quale, a nome dell'esercito ha già parlato l'onorevole collega ministro della guerra ed alla commemorazione del senatore Bastoni, della cui filantropia è stato tessuto l'elogio. (Bene).
PRESIDENTE.Non facendosi osservazioni in contrario, darò corso alla proposta del senatore Diena.

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 27 dicembre 1919.