senato.it | archivio storico

BERTI PICHAT Carlo

30 dicembre 1799 - 15 ottobre 1878 Nominato il 15 novembre 1874 per la categoria 03 - I deputati dopo tre legislature o sei anni di esercizio provenienza Emilia-Romagna

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Sebastiano Tecchio, Presidente

Signori senatori! [...]
Carlo Berti-Pichat nacque in Bologna il 30 dicembre 1799.
Sin da giovanetto fu preso d'amore per gli studî, specialmente delle matematiche e dell'agraria. Si piaceva eziandio di numeri musicali, e ne scrisse alcunché: toccò con maestra mano il violino; e conobbe varî altri strumenti.
Le maggiori sue proprietà erano nel Bolognese, a San Lazzaro di Savena. Tante cure vi ha speso, e tanti miglioramenti ha introdotto, che poté ottenere a quel paesello, nel 1828, la patente di Comune autonomo; ed egli alla prima ne venne eletto priore, che oggi diciamo sindaco.
Nel 1831, plaudendo all'alba del nostro risorgimento, diede di piglio alle armi; e comandò alla volta di Ferrara la Guardia nazionale di Bologna contro gli Austriaci.
Come quei moti fallirono, tornò ai primi studî e alle pratiche agrarie, delle quali fece saggi larghissimi ne' suoi poderi.
Ma perché il sentimento patrio gli ardeva nell'animo; e assai lo accuorava che i suoi conterranei, avvegnaché disdegnosi del giogo teocratico, vivessero disgregati ed inerti; divisò di scuotere quella ignavia, la mercé di un diario, che, discorrendo di negozi campestri, sapesse innestarvi la critica degli atti del Governo papesco, e accarezzare le speranze d'Italia. Codesto fu la effemeride nominata il Felsineo, che per opera di lui, e di Augusto Aglebert, suo fratello di madre, venne fuori nel 1840.
Né Carlo a ciò s'acquietava. Premendogli di stringere i nodi tra la città e la campagna, istituì nella sua casa il 1° febbraio 1842, una Associazione, che intitolò la Conferenza agraria; nella quale, il venerdì di ogni settimana, si adunavano e proprietarî, e fattori, e dotti, e studiosi, a ragionare di agronomia, e delle industrie adiutrici o congeneri e di altri argomenti che riguardavano non meno alle materiali che alle morali necessità del civile consorzio. Non tollerò che i soci contribuissero a' dispendi della Conferenza, e li sostenne tutti del proprio; né accettò il commessogli ufficio di Presidente, ma invece s'è sobbarcato al carico di segretario perpetuo.
L'avvento di Pio IX gli parve (e a chi non doveva parere?) promettitore e foriero del sovrano bene, sospirato da secoli, la indipendenza. E smessi d'un tratto i modesti concetti e i disegni delle riforme, pur dianzi caldamente invocate, mandò pe' torchi un altro giornale, L'Italiano, che senz'altro più predicava la guerra.
Nell'ultimo numero di quel Giornale registrò nettamente la dichiarazione, ch'ei cessava dalle parole perché era omai giunta l'ora da impugnare la spada. E in fatti, sul principio del maggio del 1848, muoveva per le Venezie col Battaglione Bolognese, del quale non oserei di asserire se siano state più splendide le virtù civili o belliche.
Indarno la città di Fermo lo eleggeva alla Camera di Roma. Egli rifiutò il mandato, replicando che per gl'italiani non correva il tempo di disputare, ma sì di combattere.
Reduce da Venezia, il 1° gennaio 1849 fu nominato preside di Bologna; e altresì comandante militare delle quattro legazioni. Salito il seggio di preside nel 15 gennaio, pose ogni sollecitudine a guarentire la vita e le sostanze dei cittadini, minacciati da torme di malandrini audacissimi.
Recito alcuni frammenti del proclama da lui pubblicato il detto giorno 15 gennaio:.
“..L'ordine recherà la sicurezza delle persone e delle proprietà, che da me saranno energicamente protette; la libertà, quella vicendevole e intera delle coscienze e delle opinioni… La fraterna concordia unirà tutti in un solo pensiero, - di meritarci d'essere liberi colla severità del costume, e coll'abborrire le agitazioni, nelle quali si pesca solo un individuale profitto: unirà tutti in una sola politica, - di prepararci colle opere al supremo fine di rifarci nazione.. Nell'assumere il gravissimo ufficio, non deporrò l'onorata divisa di soldato italiano. Perciocché, se vedrò l'opera mia troppo manchevole al pubblico desiderio, o se sentirò fremere di nuovo il bronzo di guerra, so che i miei prodi camerati non mi ricuseranno il mio posto nella Legione Bolognese” (1).
Poco poi, la Gazzetta di Roma del 22 gennaio pubblicò un decreto di quel Governo, che rimetteva due anni di pena a tutti i condannati per qualunque titolo(eccetto pochissimi), e immediate sprigionava coloro cui non restasse da scontare più che un biennio. Il Berti-Pichat, reputando incauto il Decreto, e tale da crescergli le difficoltà della carica di preside, deliberò incontanente di resignarla. Ma un Indirizzo, sottoscritto da settemila Bolognesi, tra' quali i più notabili, con ogni maggiore istanza lo indusse a rimanere al suo posto. Tanta fiducia avevano nel senno suo! E così presagivano che le sue provvisioni gioverebbero daddovero alla quiete della travagliata città e del vicinato!
Soprastava in que' giorni a Bologna il pericolo di una grande iattura. Erano in essa di guarnigione gli Svizzeri pontificî, comandati dal generale Latour; dico i superstiti di que' bravissimi, che nel 48, essendo duce supremo Giovanni Durando, aveano combattuto un intiero esercito di imperiali, e fattogli costare tanto sangue la ricuperazione del Monte Berico e della città di Vicenza. Egregio uomo il Latour; vecchio, ma intrepido; di nobili sensi, e, ancoraché vincolato al Pontefice dal giuramento, alle italiche aspirazioni benevolo. Il 28 gennaio arriva l'ordine che gli Svizzeri, lasciata Bologna, più presto che in fretta se ne vengano alla Romagna. Credevasi che l'ordine muovesse da Gaeta, dove s'andava facendo un'accolta di armati, i quali, d'intesa cogli Svizzeri, marcierebbero avverso Roma per restituirla alla obbedienza di Pio. Il Latour si mostrava dolente dell'ordine ricevuto, ma rammentava la fede giurata: più dolenti si mostravano i Bolognesi, che degli Svizzeri assai pregiavano la disciplina e il valore. Non è a dire se di quel presidio (1300 fanti, e 180 artiglieri, con otto pezzi) facesse conto il Berti-Pichat, e quanto è s'ingegnasse a stornarne la dipartita; e non è a dire la letizia dei cittadini quand'egli, l'ottimo Preside, ha notificata la lettera 29 gennaio, colla quale il generale Latour, partecipandogli la risoluzione che la Brigata rimanga a Bologna, soggiungeva: “I campi di Vicenza protestano della nostra simpatia per la causa italiana..” (2).
Nel giorno medesimo, ventun colpi di cannone salutavano i nomi degli eletti di Bologna all'Assemblea costituente italiana. Risplendeva, fra gli altri, il nome del Berti-Pichat, colla rilevantissima cifra di suffragi 16,593 (3).
Quand'ecco, addì 19 febbraio, le schiere del maresciallo Haynau ingrossano davanti il Po, e lo varcano, e, occupata un'altra volta Ferrara, accennano con cupido sguardo a Bologna. Ma non per questo il preside s'impaurisce o tentenna: ché anzi rapidissimamente è raccoglie e mette in sesto quante più forze è possibile; costituisce un Consiglio militare, e una Commissione di pubblica sicurezza; suscita ad alti fatti il nobile orgoglio dei cittadini; promette che, se il nemico si innoltri, lo incoglierà una sconfitta, non diversa da quella degli 8 agosto dell'anno addietro.
In questo mezzo, un decreto dell'Assemblea costituente, a voci unanimi, ha proclamato il Berti-Pichat benemerito della patria.
Il 2 aprile, i triumviri lo nominarono ministro dell'Interno. Egli però volle innanzi tutto scrutare lo spirito delle popolazioni, e come fossero governate. Il 7 aprile, i triumviri gli dettero pieni poteri per sopperire ai bisogni delle provincie. Ma, percorrendole, s'avvide che non v'era modo da contentarle: per lo che, inviata al Triumvirato la sua rinuncia, ripigliò il comando del Battaglione Bolognese; e con questo speditamente pervenne a Roma.
Quivi, rimpetto ai Francesi di Oudinot, fece egregie prove d'intelligenza militare e di audacia il 15 giugno sui Monti Parioli, e in varî altri combattimenti sino alla fine. Indi riparò ad una sua villa, l'Abbadia di Castel de' Britti; d'onde, ricercato dalla Polizia, dovette prendere la via dell'esilio. Non gli piacendo i favori de' forestieri, ricusò il passaporto offertogli da Sir Giorgio Hamilton, ministro inglese. Gli abitanti della montagna Toscana lo scortarono sino a Livorno, ove s'imbarcò sullo Scamander: passò di Francia, che agli esuli contendea la dimora: sostò breve tempo a Losanna.
Nel 1850, saputo che gl'italiani, emigrati da' natii luoghi, avevano facoltà di fidatamente abitare negli Stati del Re leale, corse a Genova e quinci a Torino: e nello stesso anno pose mano alla sua opera Istituzioni scientifiche e tecniche, o Corso teorico-pratico di agricoltura, che ha compiuta in otto grossi volumi.
Nel 1852 si acconciò ad una impresa rurale nel Canavese: e nel 1861, scioltosi da quella, prese stanza, non oziosamente, sui colli di Pinerolo.
Dagli antichi amici, specie da Giovanni Durando e Massimo D'Azeglio e Pietro Paleocapa, e da' nuovi che molti furono, s'ebbe amplissime dimostrazioni di affetto e di stima.
A petizione del conte di Cavour, visitò le di lui possessioni; e pose in sodo che erano governate co' più progressivi e caritatevoli intendimenti.
Le gesta guerriere e politiche del 1859 lo ricondussero alla sua Bologna desideratissima. I conterranei lo abbracciarono festosamente; e lo elessero rappresentante all'Assemblea della Romagna.
Le profferte di cariche momentose e fornite di larghi stipendî non accettò: massime quella di Ispettore generale e ordinatore degli istituti agronomici e scuole agrarie, alla quale lo avea trascelto il decreto 14 febbraio 1860 del governatore dell'Emilia. Gradì per altro le onoranze che gli venivano dal suffragio popolare: laonde tenne gli ufficî di consigliere comunale, di consigliere provinciale, e di deputato al Parlamento; nel quale sedette per 3° collegio di Bologna in quattro legislature, la VII, la VIII, la IX e la X.
Tra i deputati fu propriamente esemplare. Parlò su parecchi disegni di legge. Così, nel 1861, su quello della unificazione dei debiti dello Stato; nel 1862, su quelli della tassa registro, e della privativa dei sali e tabacchi, e della Cassa dei depositi e prestiti, e delle modificazioni alla Legge di reclutamento; nel 63, sul bilancio dei lavori pubblici; nel 66 sull'esercizio provvisorio del bilancio dello Stato; e dappoi sul magno tema dei provvedimenti finanziari.
Nominato, per decreto reale, presidente della Commissione per le industrie del tabacco e del cotone in Italia, viaggiò attentamente le provincie capaci di tali industrie, e vi diffuse le istruzioni giudiziosissime. La città di Benevento, che di quelle istruzioni seppe fare gran pro, gli attestava la comune riconoscenza, descrivendolo tra' suoi cittadini.
Pubblicò alquanti opuscoli sulla perequazione fondiaria, sul tabacco, sul cotone.
Aveva rappresentata una Società agraria alla prima Esposizione di Londra; ove fu ricevuto molto onorevolmente; e Lord Russel, che il prese seco in una corsa po' suoi tenimenti, ne ascoltò di buona voglia le osservazioni, e il circondò d'ogni maniera di cortesie.
Nel 63 lo vollero membro della Commissione parlamentare permanente, per gli interessi delle provincie e dei comuni.
Nel 61 era stato uno dei giurati all'Esposizione di Firenze, e nel 62 all'altra di Londra; nel 67 lo fu a quella di Parigi; nel 72 a quella di Vienna; e nel 75 all'Agraria-industriale di Faenza, dalla quale gli fu decretato un diploma d'onore.
Nel 72, dopo le elezioni generali amministrative, esercitò in Bologna le funzioni di sindaco. Ma, perché sopra ogni cosa guardava ai contribuenti, non gli resse l'animo di consentire a certe sontuosità, apettite da molti del Municipio, alle quali sarebbe conseguito il bisogno di aumentare i balzelli: e quindi disaccettò la dignità sindacale, che il Governo gli aveva preconizzato.
Era socio di molte accademie italiane e straniere. Venne insignito di varî ordini cavallereschi. La medaglia d'oro per la difesa diRoma, che aveva ricevuto dagli ufficiali del Battaglione bolognese, gli fu sempre cara, più che ogni altro simbolo o ricordo d'onore.
Il decreto reale del 15 novembre 1874 lo innalzò al Senato del Regno. Né possiamo ripensare senza cordoglio a' casi acerbissimi, che tolsero al nuovo collega di convenire fra noi colla solerzia onde lo aveano ammirato alla Camera dei deputati.
Avea, sin dal 1828, menata in isposa la contessa Vittoria Massari di Ferrara. Il talamo era stato allegrato di quattro figliuoli; due tra i quali, di sesso virile, Giovambattista e Guglielmo; amendue di pronto ingegno, di indole nobilissima.
L'uno, che soprantendeva in sollievo del padre alle cose campestri, e spendeva ogni altro pensiero tra gli istituti della pubblica beneficenza, nel 1874 per un colpo di sole infermò tanto acremente, che niun rimedio valse mai a ristorarlo; e i genitori sel videro di dì in dì sempreppiù illanguidito, da doloro acutissimi macerato, e già devoto alla morte, che pose termine a' suoi patimenti il 9 gennaio 1877.
L'altro figliuolo, Guglielmo, avea raggiunto con lieti auspicî il grado di ufficiale nella Regia marina; e stava per ammogliarsi, non senza che i suoi se ne sentissero consolati. Doveano le nozze celebrarsi entro il settembre del 1878. Ma che? Percosso da morbo invincibile, a' 18 del giugno il fidanzato non era più che un cadavere!
Alla prima di sì enormi sciagure il forte petto di Carlo Berti-Pichat avea potuto, comeché penosamente, resistere. Ed io gli so grado che il 17 marzo 1877, ad onta dell'angoscia che lol premeva, non disdisse la chiama che di lui feci, per delegazione del Senato, alla Giunta d'inchiesta agraria, istituita colla legge del 15 di quel mese. Né solamente portò nella Giunta il suo nome; ché anzi (testimonio il senatore Jacini che la presiede) a' di lei lavori partecipò collo zelo che aveva sempre mostrato in ogni argomento geoponico.
Ma la seconda calamità gli schiantò il cuore. E il mattino del 15 ottobre è stato l'ultimo dell'infelicissimo padre.
Che lutto non fu il tuo, o Bologna? Con che calca di gente, con che voci pietose, e con che lagrime, e con che pompe esequiali non hai tu suggellata sulla salma di tanto cittadino la venerazione, la gratitudine di tutti i buoni?

Senato del Regno. Atti parlamentari. Discussioni, 4 febbraio 1879.
.
(1) Dalla Gazzetta di Roma, 19 gennaio 1849.
(2) Dal Monitore romano,1 febbraio 1849.
(3) Ivi.