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BERGAMINI Alberto

01 giugno 1871 - 22 dicembre 1962 Nominato il 03 ottobre 1920 per la categoria 21 - Le persone che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria provenienza Emilia-Romagna

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Ennio Zelioli Lanzini, Vicepresidente

Ha chiesto di parlare il senatore Donati. Ne ha facoltà.
DONATI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, entrando nella Biblioteca del Senato l'occhio correva frequentemente verso l'angolo più nascosto, e si soffermava nella contemplazione di un vegliardo intento allo studio ed alla lettura, per vecchia consuetudine di vita; si soffermava sui suoi lineamenti severi e marcati che, almeno a me, emiliano, richiamavano la figura fisica della nostra gente della "bassa" e denunciavano la sua origine di modesta famiglia di fornaciai, ma insieme rivelavano il suo carattere forte, ostinazione delle sue convinzioni, l'abnegazione nel servirle.
Era un emiliano tipico, un cavaliere del suo ideale, non altri che se stesso: Alberto Bergamini. Se stesso nelle idee politiche: monarchico dalle origini fino agli ultimi momenti di sua vita; liberale, ma non certo inquadrabile nelle posizioni di un partito, perché indubbiamente aperto ad influenze di altra origine e non insensibile a sentimenti nazionali e forse in qualche momento nazionalistici; se stesso, perché non era facile, neanche nel periodo della sua maggiore attività di giornalista o di politico, inquadrarlo nell'ambito di una delle forze politiche organizzate ed operanti. Se stesso nelle forme di espressione e di lotta: basterebbe considerare il suo giornale, quello che egli ha creato e diretto per 23 anni prima, per pochi giorni poi, per trovare nelle forme di espressione la tipica affermazione di una personalità che, distaccandosi da una tradizione allora operante, dava vita ad una nuova forma di giornalismo, ad una nuova forma di espressione. Se stesso nella dignità con cui affrontò nei momenti difficili della sua vita posizioni indubbiamente scabrose: basterebbe ricordare quando, nel 1923, dopo mezza vita spesa per la creazione del "Giornale d'Italia", ricevette da Mussolini una telefonata attraverso la quale si volevano imporre al direttore direttive e ordini; il senatore Bergamini abbassava il ricevitore e abbandonava senz'altro il suo posto. Lo stesso senso di dignità lo portava, 22 anni più tardi, quando da pochi giorni aveva ripreso la direzione del suo giornale, ad attendere la cattura al suo posto di lavoro, benché avvertito tempestivamente che i birri tedeschi venivano ad arrestarlo; non aveva voluto fuggire, aveva voluto affrontare serenamente, con la dignità e con la fierezza di sempre, gli eventi.
Quest'uomo era spesso nella nostra biblioteca curvo sui libri; si informava, leggeva, studiava, quando avrebbe potuto essere egli stesso un libro aperto di storia, la storia di quel mezzo secolo di vita alla quale ha partecipato come elemento attivo, come elemento forse in certi momenti determinante.
Era difficile, nel periodo della sua giovinezza, farsi strada nell'ambito del giornalismo che contava da noi uomini di grande rilievo; ma la sua intelligenza, la sua volontà, la sua tenacia gli consentirono rapidamente di passare dal "Resto del Carlino" e da un giornale provinciale della zona di Rovigo al "Corriere della Sera", e poi di spiccare, appena trentenne, il volo verso la nuova creatura che egli forse sognava. Anche il trapasso dal "Corriere della Sera" al nuovo incarico, con uomini politici che egli certo stimava ma con i quali mai poteva confondersi, come Sonnino e Salandra, era difficile, per lui; era difficile lasciare la vecchia famiglia, e la sua tenacia fu forse vinta per gli stessi incoraggiamenti di Albertini, fu forse vinta dalla convinzione di avere una sola parola da dire nel mondo del giornalismo.
Se pure il suo giornale espresse le sue convinzioni conservatrici, se pure fu un'arma di battaglia nei confronti delle posizioni giolittiane, a sostegno, per molti aspetti, degli ideali politici di Sonnino e di Salandra, indubbiamente il giornalista prevalse sul politico, e il "Giornale d'Italia" riuscì a penetrare perché seppe dire una parola nuova: una parola nuova nell'impostazione della battaglia politica, una parola nuova nella tecnica giornalistica, una parola nuova nella valutazione dei valori artistici e letterari, che fino ad allora la stampa aveva trascurato. E, fatto sintomatico, la terza pagina, che egli praticamente creò, non fu espressione di una sola corrente di idee, ma fu largamente aperta agli uomini di cultura di varie correnti, ad esprimere la esigenza che il giornale d'informazione fosse anche un giornale aperto sui movimenti fondamentali della vita culturale italiana.
Certo, nella storia d'Italia, l'opera del giornalista Bergamini ebbe un suo peso. Lo ebbe tanto che personalità che sembravano, fino ad un certo momento, definitivamente scomparse dalla vita politica italiana, riapparvero e divennero di primo piano; Salandra e Sonnino ebbero poi, nel 1906 e soprattutto nel 1914-15, il peso che tutti ricordiamo: le battaglie di Bergamini avevano avuto il loro peso sull'opinione pubblica italiana.
Forse allora era più facile e più difficile di oggi la vita del giornalista; più facile perché la fantasia, l'intelligenza, la capacità tecnica, la penna dello scrittore avevano più incidenza e più peso di quanto non possano avere oggi, in cui la stampa, avvalendosi di mezzi tecnici assai più ampi, è, però, in certo modo, condizionata da queste stesse disponibilità; più difficile perché, nella ristrettezza dei mezzi di informazione, determinanti diventavano le doti dell'uomo che rivelava ed esprimeva tutto se stesso nel suo lavoro. Ma è un fatto che nella storia del giornalismo italiano la figura di Bergamini ha lasciato una traccia che non si potrà dimenticare.
Vorrei però soffermarmi ancora su un altro aspetto. Bergamini, a mio avviso, è stato un grande giornalista, ma è stato anche un parlamentare. Nel 1920 il suo avversario di sempre, Giolitti, gli offerse il laticlavio. È un fatto significativo; esprime, in sostanza, un costume che forse è un po' decaduto, esprime la durezza delle lotte in nome di un ideale, ma esprime anche la cavalleria di avversari che riconoscono il valore di coloro che da loro dissentono. E Bergamini accettò il laticlavio offertogli da Giolitti.
Non vorrei dire che, nella storia parlamentare, il senatore Bergamini abbia lasciato una traccia profondissima; ma indubbiamente è stato qualcuno anche quale senatore. Possiamo dissentire dalle sue posizioni, possiamo criticare certi suoi atteggiamenti, ma dobbiamo riconoscere che egli non è mai venuto meno a quella coerenza con se stesso che è stata, indubbiamente, la sua più grande virtù.
Quando, nel dopoguerra, si sono posti problemi drammatici per la vita italiana, Bergamini è rimasto fedele ai suoi ideali: monarchico da sempre, ha combattuto la sua battaglia monarchica; perseguitato per le sue opinioni, specie dopo il 1925 - anno in cui praticamente si ritirò a vita privata - e nel 1943, riebbe il suo posto nella Consulta e nella prima legislatura del Senato repubblicano e portò sempre alta quella dignità dell'uomo, del giornalista, del senatore, che fu la sua bandiera.
Non lo vedremo più nell'angolo della biblioteca, ma difficilmente dimenticheremo il suo insegnamento di forza, di coraggio, di coerenza. Non fu certo un uomo vicino né al Partito popolare né alla Democrazia Cristiana; ma noi democristiani ci inchiniamo al combattente della libertà, alla grandezza di un uomo che ha saputo sempre essere coerente con se stesso con i suoi ideali.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il senatore Terracini. Ne ha facoltà.
TERRACINI. Signor Presidente, a nome del gruppo comunista, a mia volta esprimo il più profondo cordoglio per la scomparsa del senatore Alberto Bergamini. Benché ormai da molti anni egli non sedesse più fra di noi, investito di un formale mandato, credo che il Senato sia stato direttamente e profondamente colpito da questo triste evento.
Noi ricordiamo del senatore Bergamini la rettitudine luminosa, l'integrità incomparabile della coscienza, dell'animo, dello spirito. Era di una bontà veramente toccante, incapace di avere sugli altri alcun sospetto allorquando si poneva un problema di lealtà; e ciò gli riserbò nel corso della sua lunga ed operosa vita non raramente profonde delusioni e grandi amarezze. Era animato da una simpatia umana illimitata, che lo portava ad essere, con chiunque gli si presentasse e lo avvicinasse, aperto e pieno di comprensione e di avvicinamento. Ignorava ogni sentimento di astio e di odio, e trasferiva ogni contrasto, che potesse insorgere in lui, uomo dotato di alto intelletto, nei confronti di posizioni intellettuali e spirituali altrui, sul piano di una superiore comparazione delle idee, senza mai tradurre in avversione personale quello che doveva restare per lui un sereno dibattito di opinioni.
Egli credeva profondamente nel vero e nel giusto e, allorquando riteneva di ritrovare verità e giustizia in posizioni di altri, non esitava a dichiararlo, rinunciando a quanto avesse in precedenza ritenuto valido e difeso. Per questo motivo, sebbene il suo intelletto e la sua coscienza si fossero forgiati secondo i dettami politici e filosofici che all'alba della sua vita rappresentavano la luce nuova che guidava il popolo italiano verso l'avvenire, egli non fu insensibile al grande moto di liberazione sociale delle masse popolari e laboriose che ad un certo momento presero il primo posto sulla scena politica della nostra nazione, e guardò con dichiarata simpatia al loro slancio rinnovatore che, attraverso il succedersi delle lotte, le fece protagoniste decisive delle vicende nazionali, da misconosciute e calpestate che erano sempre state.
Lo stesso atteggiamento risoluto, fiero, coraggioso che Alberto Bergamini assunse e conservò nei confronti del fascismo, fu una manifestazione significativa della sua comprensione e capacità di adeguare le primitive idealità, senza abbandonarle, al nuovo che insorgesse dal popolo del quale egli si sentiva parte.
Per questi motivi noi ricordiamo Alberto Bergamini come cittadino degno di universale rispetto e del quale non potrà cancellarsi la memoria in quanti ebbero la ventura e l'onore di conoscerlo e di avvicinarlo. Il nostro cordoglio è sincero mentre ci inchiniamo con reverenza alla sua conclusa vita esemplare.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il senatore Alberti. Ne ha facoltà.
ALBERTI. Onorevoli colleghi, nella prima legislatura avemmo tra i senatori di diritto Alberto Bergamini il quale, nella sua lunga vicenda di giornalista - come oggi storicamente dobbiamo registrarlo - conservatore, non mancò all'occasione di manifestare le sue generose visioni di italiano, senza rancori congeniti, aspirante ad una vera unità di sentimenti per l'Italia risorta a nazione.
A malincuore egli riconosceva che nell'epopea risorgimentale e nella fase postrisorgimentale, il Partito socialista avesse avuto una sua completa funzione di rinnovamento sociale, ma quando gli si ricordava l'opera del suo amato maestro Sonnino, di Franchetti, di Agostino Bertani, di Stefano Jacini, opera rivolta ad evidenziare quelle distanze africane tra lavoratori e lavoratori che ancora persistono, egli lasciava la sua linea, talvolta sofismatica e ridiventava veramente come era e come si proclamava: sentimentale. E a quell'anelito di giustizia sociale faceva seguire una critica, forse talvolta troppo acre, per le conquiste che aveva imposto il Partito socialista italiano nella sua attività di prima del '900 e di dopo, quando egli si rammaricava che lo spiraglio aperto da Zanardelli fosse stato oscurato anzitempo.
Con questo uomo Bergamini si poteva discutere; egli prevedeva una Italia pacificata per sempre sulla base della raggiunta - a suo modo magari - giustizia sociale ed egli ci disarmava, per dir così, per quella squisita qualità del suo animo per cui non poteva pensare dovesse esservi tra uomo e uomo il benché minimo spirito di odio.
Ci inchiniamo riverenti alla sua memoria, a lui che portò la terza pagina dei giornali italiani a tale fastigio di perfezione, almeno formale, che si deve catalogare tra le forme di evoluzione in bene del giornalismo italiano culturale.
Quando suonò l'ora dell'esame di coscienza profondo, egli si dimostrò di ferrea intransigenza, e, come resisté all'invasore tedesco, così - mi sia permesso ricordare questo episodio - dopo un tentativo di assalto alla sede de "L'Avanti", egli, passando sopra ai cattivi consigli dei suoi amici di Partito, aveva detto: "Io metterò a disposizione le macchine de 'Il Giornale d'Italia', il giornale più odiato dal giornale 'L'Avanti' ". Nella tradizione della solidarietà giornalistica non si debbono dimenticare queste posizioni. Quando un nostro collega, che sedette su questi banchi per la Democrazia Cristiana, Quinto Tosatti, non appartenente a nessun partito allora, volontariamente si fece capo cronista del giornale "L'Avanti", per protesta egli lo mandò a chiamare e lo abbracciò.
Noi siamo non immemori di queste illuminazioni nell'animo del defunto Alberto Bergamini, e ne rispettiamo e onoriamo la memoria; e l'additiamo, quante volte occorra citare un giornalista sensibile alle forme di evoluzione in meglio della terza pagina ed anche di un movimento intento a modificare lo stesso stile giornalistico, lo additiamo a qualcuno della giovane generazione.
Per questo, concludendo, noi il saluto delle armi, che gli facemmo in altre occasioni, rinnoviamo oggi qui, nel cordoglio della sua dipartita.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il senatore Venditti. Ne ha facoltà.
VENDITTI. Non si può, onorevoli colleghi, con una parola temeraria e superflua, come la mia, dopo quelle di Donati, di Terracini, di Alberti, non si può, dicevo, commemorare degnamente Alberto Bergamini. Ma non posso fare a meno, colleghi, di ricordare, in questa nostalgica e luttuosa circostanza, di essere figliuolo di Antonio Venditti e nipote di Roberto Bracco. Dico Antonio Venditti perché mio padre, inizialmente, era avversario di Bergamini: parlamentare giolittiano da trent'anni, era stato per beghe provinciali attaccato dal "Giornale d'Italia". Alberto Bergamini non seppe fare altro, dopo brevi chiarimenti personali, che diventarne l'amico migliore e il consigliere più leale.
Questo riguarda Alberto Bergamini come cavaliere antico. Ma bisogna celebrare Alberto Bergamini oltre i confini di questo mio ricordo personale: bisogna ricordare l'uomo politico, il giornalista, l'artista, l'uomo nel suo contenuto spirituale.
Io ricordo (non si è abbastanza vecchi per non ricordare, quando il ricordo dell'ieri può servire di conforto all'inutilità della vita attuale), ricordo i tempi di Edoardo Scarfoglio, di Matilde Serao, di Vincenzo Morello, di Olindo Malagodi, di Roberto Bracco; ricordo Bergamini direttore del più originale quotidiano, del "Giornale d'Italia", che rivelò, con la sua terza pagina, con la sua inconfondibile terza pagina, poeti come Fausto Valsecchi e Nicola Marchese, critici come Ercole Rivalta e Domenico Oliva.
Ricordo l'uomo politico, perché - non è stato ricordato ma bisogna ricordarlo - nel 1947 Alberto Bergamini fu presidente del Gruppo misto, di quel Gruppo misto cioè che, oggi, con tanta autorità, con tanta lucidità, con tanto patriottismo, presiede Giuseppe Paratore.
Ma Alberto Bergamini era anche un artista: molti di voi possono ricordarlo. Se non ci fosse altra documentazione, ci sarebbe questa: alla morte di Carlo Alberto Salustri, di "Trilussa, in quest'Aula, da quel banco dove attualmente è seduto Giuseppe Paratore, Vittorio Emanuele Orlando fece del poeta romanesco un'appassionata commemorazione. Dal banco dove in questo momento è seduto il senatore Nencioni, Alberto Bergamini parlò dell'arte di "Trilussa" come pochi ne avevano saputo parlare.
Ma non è soltanto da un punto di vista personale, da un punto di vista politico, da un punto di vista giornalistico, ma anche e soprattutto da un punto di vista umano che la memoria di Alberto Bergamini si impone a tutti i Partiti. Poche volte - ed io non sono tanto giovane da non poter fare paragoni! - abbiamo avuto un esempio così compiuto e sublime di fierezza, di dignità, di bellezza morale.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il senatore Ferretti. Ne ha facoltà.
FERRETTI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, a proposito di Alberto Bergamini veramente la classica frase "a tanto nome nessun elogio può esser pari", almeno per noi giornalisti di una generazione successiva alla sua, ha un valore cogente. Non impiegherò dunque molte parole per dire quanta commozione dolorosa ci prese allorché vedemmo scomparire questa alta e nobile figura di cavaliere dell'ideale.
Quando andavamo in biblioteca e vedevamo quest'uomo chino sulle sue carte, con la passione di un certosino ma insieme con l'entusiasmo di un giovane ricercatore di verità, sentivamo anche noi un afflato prenderci e trascinarci in ammirazione verso di lui.
Egli fu certamente un maestro di giornalismo. Egli rinnovò il giornalismo italiano e rimane nella storia del giornalismo italiano ed europeo con un nome e un ricordo che non saranno mai cancellati.
Eppure non è questo l'aspetto più singolare della sua personalità, l'aspetto più singolare, a mio avviso, è che egli fu un esempio vivente di tutte le virtù private e civiche. Per quanto si possa indagare nella sua lunghissima vita, non si trova una sola pagina alla quale ciascuno di noi non vorrebbe apporre la propria firma.
Fu un combattente. Non fu un uomo che limitò la sua azione alle biblioteche o al tavolo del giornale. Quando si trattò di combattere, con rischio anche fisico della propria persona, egli non si risparmiò, convinto come era che l'ideale va servito ovunque, sempre e con ogni mezzo. Ma in questo suo ardore di battaglia, che più che di polemica sapeva di combattimento, egli portò uno spirito di umana comprensione che lo tenne sempre lontano da ogni faziosità.
Io credo, onorevole Presidente, onorevoli colleghi, che, più delle nostre parole, il suo elogio si debba intessere di una sua frase. Avendo il collega Turchi chiesto l'adesione ad una campagna fatta sul proprio giornale per la pacificazione nazionale, egli rispose con queste parole: "Aderisco nel nome del supremo amore nostro che è la patria". Questo è l'elogio funebre di Alberto Bergamini.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole ministro di grazia e giustizia. Ne ha facoltà.
BOSCO, ministro di grazia e giustizia. Signor Presidente, il Governo si associa alle commosse parole di cordoglio che sono state qui pronunciate per ricordare la nobile figura del senatore Alberto Bergamini. La sua memoria resterà eternamente scolpita nel nostro cuore e merita di essere additata alla riconoscenza degli italiani, non soltanto per la bontà del suo animo e l'altezza del suo ingegno, ma anche per la profondità della sua cultura e soprattutto per avere egli dedicato la sua vita al servizio della patria e agli ideali delle libertà democratiche.
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, alle fervide espressioni commemorative pronunciate dai senatori Donati, Terracini, Alberti, Venditti e Ferretti e dall'onorevole ministro Guardasigilli, in memoria del senatore Alberto Bergamini, si associa la Presidenza di questa Assemblea, che è stata così degnamente illustrata e onorata dal senatore Alberto Bergamini, anche nella prima legislatura repubblicana.
Sedeva nel primo seggio sui banchi della destra; monarchico sincero e convinto, aveva accettato il nuovo regime repubblicano con la lealtà che è stata la veste di tutta la sua vita, e nel giornale, e nella letteratura e nell'azione sociale e nell'attività politica parlamentare. Ricordiamo l'atteggiamento di fierezza e di combattività che egli assunse in questa Aula, invocando a suo titolo di vanto i precedenti di una storica battaglia al Senato del Regno ove, avendo pronunciato un "no" di risoluta opposizione ad un disegno di legge limitativo delle libertà statutarie, non poté, in quel giorno, allontanarsi da Palazzo Madama ove, a tutela della sua fisica incolumità, fu invitato a passare la notte successiva a quella memoranda seduta.
A mezzo del suo Presidente, è già stato espresso il cordoglio del Senato e di tutti i suoi componenti; per mio tramite, ancor oggi, lo rinnovo ai nipoti, alla famiglia del suo giornale e alla più grande famiglia della patria, che, nella memoria dei suoi vegliardi, celebra la storia delle vicende tristi e liete della nazione, nel libero evolversi delle sue istituzioni democratiche.

Senato della Repubblica, Atti parlamentari. Resoconti stenografici,10 gennaio 1963.