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BARZELLOTTI Giacomo

07 luglio 1844 - 18 settembre 1917 Nominato il 03 giugno 1908 per la categoria 18 - I membri della Regia accademia delle scienze dopo sette anni di nomina provenienza Toscana

Commemorazione

 

Atti Parlamentari - Commemorazione
Giuseppe Manfredi, Presidente

Onorevoli colleghi! Ora il nostro pensiero pur troppo si deve volgere ai senatori che abbiamo perduto durante le vacanze. [...]
Dolorosa sorpresa il 19 settembre venne prodotta dall'annunzio della morte del senatore Barzellotti, che in Piancastagnaio godeva le vacanze. È un'altra perdita inaspettata; della quale prendiamo lutto con l'Università di Roma, e con Firenze, ove era nato il 7 luglio 1844; ove aveva studiato ed aveva intrapreso l'insegnamento. Cominciò nel Liceo Dante le lezioni di filosofia morale. Andò poi alla stessa cattedra in Pavia, e di là passò a Napoli. Salì alla Cattedra della filosofia della storia nella Università di Roma e vi ha dettato sino all'ultimo. Il Senato se ne pregiava dal 3 giugno 1908.
Giacomo Barzellotti lascia rinomanza in Italia e fra gli stranieri, datagli dalle pubblicazioni de' suoi libri e d'innumerevoli articoli nelle riviste e ne' giornali. Il parlarne sarà proprio dei cultori delle filosofiche e storiche discipline. In questa Assemblea, alla quale fu assiduo, frequenti furono i suoi dotti discorsi. O filosofo, o letterato della filosofia, che voglia chiamarsi, il Barzellotti, che meritò seggio nell'Accademia dei Lincei e lo ebbe anche in quella della Crusca, fu una mente superiore, un ingegno fertile, del quale la perdita è fortemente sentita. (Benissimo). [...]
TOMMASINI. Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TOMMASINI. Il giorno della riconvocazione è pel Senato un giorno di lavoro e di festa, ma non va scevro da commozione, perché è giorno in cui si commemorano le perdite che nell'intervallo delle vacanze il Senato ha subito.
Il venerato nostro Presidente, gli egregi oratori che mi hanno preceduto, hanno oggi ricordato gli alti meriti di persone scomparse alla vita pubblica, singolarmente benemerite della patria, amatissime nel Senato. Se comune è il rammarico e la memoria degli onorevoli colleghi perduti, per taluni di essi le relazioni personali più dirette, più antiche, più vive, giustificano quasi un attestato di particolare rimpianto. [...]
E dopo di lui ricordo qui, un altro dei nostri perduti colleghi che ci dava speranza di poter forse a lungo collaborare ai lavori del Senato e che abbiamo visto scomparire d'un tratto e come innanzi tempo: io parlo del senatore Barzellotti, col quale ebbi comunanza di tendenze, di studi e di contatti ideali nell'Accademia dei Lincei. Ne ammiravo l'arguzia rappresentativa, la finezza del pensiero, la genialità della forma.
In questi ultimi tempi, gravi di rapidi mutamenti, non era facile esprimere un pensiero filosofico che non desse di cozzo nelle tendenze politiche, ed egli poté un momento essere in parte mal giudicato; ma se, prima che si dichiarasse la guerra, egli esitò circa gl'impulsi che provocarono l'Italia alle armi, dichiarata la guerra, neppure un momento indugiò a consentirla come voto e necessità della nazione concorde, approvando tutte le misure legislative che dessero i mezzi per condurla fortemente, prudentemente, alacremente alla vittoria. Così potesse egli esser presente quest'oggi alla nostra Assemblea, come son sicuro ch'egli pure inneggerebbe all'eroismo dei nostri soldati, all'accortezza ed al valore di chi li conduce, alla compagine mirabile del nostro esercito e della patria, che con ansiosa fede ne tutela le sorti.
[...], propongo che anche per il defunto collega Barzellotti siano mandate alla famiglia le condoglianze di questo alto consesso, ed invito la Presidenza a voler accogliere e tradurre in atto questa raccomandazione. (Approvazioni). [...]
DEL LUNGO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DEL LUNGO. Una parola, che viene dal cuore di vecchio amico e collega, per Giacomo Barzellotti.
Filosofo umanista, nell'ampio giro che dette al pensiero e agli studi suoi, egli poté attribuirsi l'antica sentenza: - Uomo sono, e tutto ciò che è umano deve interessarmi. - Cominciò con una tesi filosofica su Cicerone; e tra i molti lavori meditati e scritti nella pienezza delle forze e dell'operosità, è dei più conosciuti e meritamente pregiati uno studio ingegnoso, profondo, pittoresco, di psicologia popolare. Lungo la via laboriosa, ha interrogato le grandi figure del risorgimento e del Rinascimento, ha conversato intimamente con anime di sapienti, di solitari, di santi; nella parola o nell'azione di ciascuno investigando criticamente, con acume singolare e originalità di visione, le forme della mente e i misteri del sentimento. Ciò vale, per lo meno, quanto aver foggiato un sistema; e caratterizza i suoi intendimenti, e disegna la sua linea intellettuale.
Giacomo Barzellotti ha onorato con l'insegnamento e con la penna la patria italiana. Dalla sua Firenze io porto alla memoria di lui il materno saluto con affetto fraterno. (Approvazioni).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il ministro della pubblica istruzione.
RUFFINI, ministro dell'istruzione pubblica. La morte del professor Giacomo Barzellotti ha privato il Senato di una delle sue figure più elette e più altamente rappresentative. E rappresentativa io dico la sua figura, non solamente considerando in genere il complesso della sua attività politica, ma più particolarmente alcuni atteggiamenti di essa, e cioè i più recenti, nei quali egli espresse con una limpidità, con una decisione, con un coraggio, che non si può non ammirare, pur da lui dissentendo profondamente, il suo punto di vista; porgendo con questo suo atteggiamento un problema di psicologia individuale e politica dei più singolari al futuro storico di questi nostri difficili tempi, e al suo futuro biografo.
L'onorevole Barzellotti fu certamente quello tra i filosofi italiani che godette di una più larga popolarità, in un dato periodo di tempo: dopo, cioè, i fervori positivistici per la filosofia dell'Ardigò, e prima del gran successo che al Croce valsero la sua reazione a quei fervori e la sua miracolosa attività.
Quali le ragioni di questa sua larghissima popolarità? Quando di uno scienziato si dice che una larga popolarità è stata conquistata alla sua azione, si è tentati subito di pensare al dilettantismo, o a una pura abilità di divulgazione, piuttosto che ad originalità di speculazioni e d'indagini.
Io penso invece che in questo caso le ragioni della larga popolarità e del largo successo stessero in una nota fondamentale di tutta la sua operosità scientifica e della sua stessa mentalità: stessero in quel carattere schiettamente e profondamente italiano, che impronta tutta la sua speculazione e tutta la sua attività letteraria.
Un vero nitore di italianità fu certamente nella forma: poiché egli fu, finché visse, quello tra i filosofi italiani, che meglio scrisse.
Perché? Unicamente perché egli fosse, oltreché un valoroso filosofo, un grande maestro della parola, un artista?
Noi ci troveremmo pur sempre dinanzi ad una spiegazione puramente formale del suo successo. Vi è invece una ragione più profonda e sostanziale: la sua maestria artistica non era soltanto qualche cosa di esteriore e di sovrapposto alla sua filosofia: era la sua stessa filosofia; perché io penso che di lui non si debba dare la definizione, che ne fu data, di un filosofo artista ma di un artista filosofo. Prima artista che non filosofo: e prima artista che non filosofo, già per questo che egli, più ancora che nella potenza della scienza e della stessa filosofia, credette in quella dell'arte: e questo suo concetto pose a fondamento di tutta la sua speculazione.
È sua difatti l'asserzione che, tra i diversi modi in cui l'uomo coglie la verità delle cose, il più potente e il più vero è l'arte, perché l'arte penetra fino all'intimo organismo della natura, perché, come egli ancora diceva, nessuno dei grandi specialisti è mai riuscito a scoprire, a ventilare, a propagare qualcuna di quelle grandi verità, che sono le direttive della coscienza e dell'ordine morale. Egli fu, ancora, che designava la propria filosofia, come quella che tendeva a unire il più possibile l'arte alla scienza, come quella che voleva ritrovare sui modelli vivi che danno la storia, le biografìe intime e la osservazione delle cose sociali quanti più poteva dei tratti veri, parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle accademie non sa che rappresentare frammentariamente.
Ora, con questa sua filosofia egli palesava, non soltanto più formalmente, ma sostanzialmente, il profondo carattere di italianità della sua natura. Giustamente fu osservato, invero, che fra le due tendenze che in ogni tempo hanno agitato il mondo filosofico, fra le due concezioni della filosofia, e di conseguenza della storia della filosofia: la concezione che si potrebbe dire tecnica, e la concezione lirica; la concezione di Aristotele e quella di Platone; la concezione degli Scolastici e quella del nostro Rinascimento; la concezione che è astrazione, e quella che è intuito; la logica e la mistica; l'intellettualistica, come oggi si dice, e l'antiintellettualistica; egli si tenne sempre fedele alla prima. Ora, quando si è detto che essa è umanesimo, si è detto in pari tempo che è concezione eminentemente nostra, italiana. Come a noi mancò, siccome diceva il Carducci, il mero poeta, l'aedo, così ci mancò (fatta eccezione per qualche grande pensatore meridionale) il filosofo puro. La nostra filosofia è stata eminentemente umanistica, perché non si è mai disgiunta dal magistero dell'arte; perché è stata in gran parte letteraria; perché si è sposata anche ad altre scienze; perché si è intrecciata sempre con la vita politica e con lo studio dei problemi sociali.
E questo indirizzo così eminentemente italiano il Barzellotti accolse e propugnò, a ragion veduta, avendo coscienza della italianità del suo insegnamento e del suo pensiero, e sforzandosi di difendere in tempi non sospetti queste nostre frontiere intellettuali, altrettanto sacre quanto le frontiere materiali, contro ogni tentativo di infiltrazione di speculazioni e di metodi stranieri: di pensiero cioè non connaturato con la nostra indole nazionale.
Sono di lui, notate bene, una serie di saggi che vanno dal 1909 al 1911, tempi non sospetti, come voi ben vedete, in cui, combattendo le tendenze all'Hegelianismo, che prevalevano nelle nostre scuole filosofiche, egli asseriva altamente che codesta filosofia non era conforme al nostro clima etnico; egli protestava contro le formule eccessivamente tecniche, contro il gergo barbarico, com'ei lo diceva, non rispondente alla forma mentis del nostro popolo; e qualificava tale asservimento a tendenze straniere come un errore di lesa storia, come un errore di lesa critica; e più coraggiosamente ancora, diceva che male noi ci ponevamo sulle tracce della filosofia germanica, la quale, se era pur tuttavia la più frequente di opere e di operai, aveva perduto però la egemonia degli spiriti, di contro alle tendenze più fresche, più umanistiche della filosofia francese, inglese e americana.
Ed è a questo spirito, così profondamente e nelle forme e nella sostanza inspirato e informato dalla nostra tradizione italiana, che si vorrebbe fare l'imputazione di poca italianità?
Io penso invece che il suo futuro biografo, il quale studierà i suoi ultimi atteggiamenti, dovrà convenire che in essi prevalse un certo suo pessimismo politico, un certo suo disperare di tutti i nostri partiti perché li vedeva destituiti del potere di agitare grandi problemi psicologici, grandi correnti morali. Dal che era già derivato, tra l'altro, che il suo pensiero il quale a volte è dominato dalla veduta realistica fino quasi a rasentare il positivismo, dia poi a pieno in quella spiritualistica, fino al segno da esaltare sopra tutto l'arte, come vedemmo, e la religione, perché le sole atte a compiere quel miracolo auspicato.
Lasciamo dunque ai posteri, più sereni di noi, il giudizio definitivo della sua opera politica; noi accontentiamoci di inchinarci reverenti a questa figura così altamente e nobilmente italiana, che è scomparsa di mezzo a noi. (Approvazioni).

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 25 ottobre 1917.